“LA PASSIONE” di Carlo Mazzacurati

Da "Aprile" al venerdì santo: letture della crisi

Forse per ragionare su La passione conviene partire da un particolare secondario: la somiglianza tra il personaggio che Silvio Orlando interpreta in questo film e quello che interpretava ne Il caimano. Là un produttore in crisi alle prese con idee di film strampalate, qui un regista in crisi alle prese con idee di film altrettanto strampalate. Per entrambi la crisi non è solo artistica, ma anche umana, relazionale e si svolge sullo sfondo di una crisi che riguarda l’intera società italiana. Solo una coincidenza? O, peggio, solo la voglia di sfruttare il già visto, costruendo attorno a Silvio Orlando il clichè che il pubblico si aspetta da lui? Forse c’è anche questo, ma forse si può provare a partire da qui per stabilire una sorta di connessione tra i due film e per rintracciare un mutamento nella lettura di quella crisi sociale (perchè il problema dei due protagonisti è il medesimo: l’incapacità di fare un nuovo film è incapacità di comprendere la crisi sociale). Connessione forse indebita, visto che si tratta di film di autori diversi, ma che a questo punto allarghiamo anche ad Aprile, l’altro film di argomento “civile” di Moretti.

Anche l’ultimo lavoro di Mazzacurati è un film “civile”, perchè è chiaro che intende parlare dell’Italia di oggi. Lo dice chiaramente la voce in segreteria telefonica che, in apertura, racconta un soggetto a Silvio Orlando: “l’Italia di oggi è talmente degenerata che nessuno si indigna più per nulla”. E poi – dopo che varie volte nel corso del film il personaggio di Silvio Orlando è stato biasimato perchè non fa nulla (non ha riparato le tubature di casa, ma la faccenda allude, evidentemente, al farsi carico dei problemi della collettività) – nel finale i protagonisti (Silvio Orlando, Kasia Smutniak) guardano dritti in camera, come per interpellare direttamente lo spettatore. Anzi, il cittadino potremmo dire.

Ma – e qui sta il punto che vogliamo sottolineare – è un film sull’inciviltà dell’Italia di oggi che non nomina mai Berlusconi (e questo potrà essere valutato in modi diversi, ma certamente non è un dettaglio da poco). La politica (come quell’ambito dell’agire umano fatto di partiti, elezioni, governi e parlamenti, Berlusconi e anti-berlusconiani) è assente da La passione (o quasi – ci sono la sindaco e l’assessore). Ne La passione è invece ben presente la politica come interesse per la sfera pubblica, come partecipazione comune alla creazione di beni pubblici. Per Aprile il problema stava tutto nella sfera della politica, intesa nel primo significato – lì il problema era l’irruzione del “male” (Berlusconi) nella società italiana. Ne La passione Berlusconi scompare. La diagnosi si sposta sulla società, quindi su di noi.

La passione sostituisce il “dì qualcosa di sinistra” rivolto (in Aprile) a D’Alema con un appello rivolto a tutti noi (lo sguardo finale in camera) a riconoscere quello che ci unisce, a guardare con disponibilità e compassione l’altro (gli immigrati, a cominciare dalla polacca Kasia Smutniak, sono in questo senso figure emblematiche del film). Gli sguardi in camera del finale è come se dicessero: “facciamo qualcosa insieme“. Il problema che vivono i protagonisti delle tre opere di cui stiamo parlando – l’incapacità di fare un nuovo film – è sintomo della loro incapacità di comprendere la situazione sociale e politica e di dare ad essa una risposta convincente. Ma il modo in cui i personaggi reagiscono a questo blocco della creatività è diverso nei tre film. Per il protagonista di Aprile la necessità di fare un film civile era il richiamo a fare un film sull’irruzione di Berlusconi nella società italiana. Il produttore de Il caimano il film su Berlusconi lo faceva, ma lo faceva malvolentieri, mentre i problemi “veri” della sua vita non avevano nulla a che fare con Berlusconi (e l’ambiente da cui proveniva il film-denuncia veniva ritratto con accenti anche critici – intellettuali un po’ spocchiosi e fuori dal mondo). Il protagonista de La passione, invece, supera il blocco della creatività (fuor di metafora, riesce a comprendere la realtà sociale e politica) solo quando riesce a posare sugli altri uno sguardo nuovo, rinnovato dall’esperienza collettiva della Passione (nel finale lo vediamo scrivere finalmente la storia, pensando alla ragazza polacca).

Rimane il dubbio se il percorso che potremmo dire dalla “politica” alla “società” rappresenti il passaggio a una visione della società italiana più articolata, meno incline a manichee contrapposizioni, o rappresenti invece l’emergere di una sorta di atteggiamento qualunquista un po’ furbetto, attento a non scontentare nessuno. Probabilmente ci sono entrambe le cose. Al di là di questo, venendo alla qualità della realizzazione cinematografica possiamo dire che La passione è un film che non sempre riesce a trovare l’equilibrio tra le parti comico-farsesche (invero, a volte un po’ corrive) e il discorso civile. Questo, d’altra parte, rischia in taluni punti di essere espresso in forme non prive di retorica (l’appello finale). Ma su come valutare questo “appello” finale, e come reagirvi, lo deciderà ogni spettatore.