Bisogno non ce n’era; che il timore, il mistero, l’ansia, il coinvolgimento erano già tutti dentro alla trama di Pinter e alla precisa e raffinatissima messa in scena studiata e scelta da Teatrino Giullare; eppure, portato sotto ad una volta, bassa, con i mattoni a farsi vedere alle pareti strette, di notte, tra le mura di un paesino apparentemente silente, che riposa, “La stanza” emerge in tutta la sua potenza.
Al festival di Radicondoli, sotto il soffitto ricurvo delle piccolissime scuderie del Palazzo Comunale, La stanza è una stanza nella stanza. Una matrioska claustrofobica: dentro la quale un condominio minimo, verticale, stretto, svetta nello spazio scenico. Ed è solo lì, in alto, che l’azione – letteralmente – si apre.
Si apre in una finestra illuminata da dentro il cui contenuto, a noi voyeurs, è dato di vedere: in estremo silenzio, un po’ perché quando si spia è dovuta la discrezione, un po’ perché l’azione, l’interpretazione e l’intrigo a cui Teatrino Giullare dà vita intrappolano in un enigma. Ci sono una donna, Rose Hudd, affezionata alle mura del suo appartamento, da cui non esce mai; un marito, Bert Hudd, silenzioso fino al sospetto; un padrone di casa irrequieto, instabile, vecchio; una coppia di giovani coinquilini il cui arrivo scatena disordine e panico; e infine, un’ultima figura, la bomba ad orologeria.
Giulia Dall’Ongaro e Enrico Deotti prendono il primo testo di Harold Pinter, datato 1957, e se lo caricano sulle loro spalle di attori, togliendo però all’attore uno degli elementi principali: il viso. Sulle spalle il testo, che incombe, che pressa l’azione e crea l’ansia della trama, che volutamente costruisce un castello non identificabile di misteri, pericoli, turbe, disagi sociali e psicologici; sul viso le maschere (bellissime, di Cikuska), a coprire la persona, a mischiare ruoli e personaggi (sei in tutto, per due in scena), eppure estremamente antropomorfe, in un rimbalzo concettuale che elimina l’interprete-persona e ricrea immediatamente il personaggio-persona.
La costruzione scenica di questa Stanza, abbarbicata in alto, da guardare a collo in su, riporta alla mente in modo perfettamente sinistro le baracche dei burattini, e dei pupazzi riprende anche la spersonalizzazione dell’interprete. È, d’altronde, nella poetica di Teatrino Giullare “l’idea di attore artificiale, di esplorazione dell’espressività tramite il limite fisico”; e, a suggellare il concetto, La stanza – coprodotto insieme al CSS -, si pone come il più recente capitolo del progetto di sperimentazione “L’artificio in scena”, che dal 2005 Dall’Ongaro e Deoglio stanno conducendo attraverso i classici del Novecento (Beckett, Bernhard, Koltès) “tramite una visione inedita che sperimenti l’uso di artifici e filtri per ricercare ed esaltare la natura più intima dei testi”.
La natura più intima di questo testo, che si volta di scatto per guardarsi alle spalle, che è permeato – e permea la platea – di irrequietezza e instabilità, è nelle mani di Teatrino Giullare uno spettacolo piccolo, prezioso e potente.
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