A cosa corrisponde il ‘tocco femminile’, nel mondo dell’arte? A questa domanda hanno cercato di rispondere le direttrici di museo, studiose, giornaliste dell’arte intervenute al convegno “Power Underestimated: American Women Art Collectors”, svoltasi a Venezia il 17 e il 18 aprile scorso. Il punto di partenza della due giorni è stata la constatazione che l’influenza delle donne (anche) in questo campo viene “sottostimato” dalle accademie a dalla storiografia ufficiale.
Peggy Guggenheim, che costituì a Venezia una delle più significative raccolte di capolavori del Novecento, non rappresentò un’eccezione, quanto piuttosto la punta di un iceberg: furono infatti numerose le donne che tra Ottocento e Novecento diedero un contributo altrettanto personale ed efficace all’evoluzione dell’espressività artistica, in particolare negli Stati Uniti. Ricche mecenati, senza raggiungere mai la medesima notorietà, né tra il grande pubblico, né tra gli addetti ai lavori.
Figure, ad esempio, come Arabella D. Huntington, la quale all’inizio del novecento diede vita ad una grandiosa collezione, disseminata nei suoi appartamenti di Parigi e di New York.
Oppure come Helen Clay Frick, il cui nome è associato alla Collezione Frick di New York; una raccolta che viene considerata oggi come una delle più complete sintesi dell’arte occidentale, costituita nel suo nucleo principale da Henry Clay Frick, ma al cui sviluppo la figlia Helen seppe dare un importante ed originale contributo.
Alcune collezioniste non passarono alla storia dell’arte per i pregiudizi dell’epoca, altre per propria miopia; ma vi furono alcune mecenatesse, come Abby Aldrich Rockfeller, Mary Quinn Sullivan e Lillie P. Bliss, che cercarono, in modo apparentemente deliberato, di minimizzare il proprio ruolo.
Il Chrysler Museum of Art di Norfol, in Virginia, deve invece la propria fortuna agli sforzi di diverse donne che, con diversi ruoli, contribuirono alla sua fondazione: parliamo di Irene Leache e Annie Wood, impegnate nell’educazione privata ed ideatrici del museo, e di Jean Outland Chrysler, che ebbe un ruolo decisivo nell’influenzare il marito Walter Chrysler quando decise di donare al museo 30mila oggetti della propria collezione.
Altre donne si distinsero nel mercato dell’arte, ovvero nell’arte intesa come redditizio “business”: tra queste va ricordata Edith Halpert, fondatrice della prima galleria di arte moderna nel Greenwich Village, nel 1926, che fino alla sua morte ne 1970 impresse il proprio marchio sulla produzione artistica americana.
Una figura eccentrica fu altresì quella di Doris Duke: questa ereditiera americana decise di costruire una casa di villeggiatura in Honolulu, dopo aver visitato le isole Hawaii nel proprio viaggio di nozze ed essersene profondamente innamorata. Ma la Duke aveva una seconda passione, oltre alle isole nell’Oceano Pacifico: la cultura e l’arte islamica. La casa di Honolulu, ridenominata Shangri-La, venne infatti arredata raccogliendo negli anni ben 3.500 tra oggetti d’arte, elementi architettonici, mosaici, ceramiche, bassorilievi, infissi finemente lavorati e persino piante esotiche appartenenti alle diverse aree del mondo islamico.
Ma la più originale tra queste donne fu probabilmente Catharine Lorillard Wolfe, impegnata nella filantropia e nel mecenatismo ma conosciuta, ai suoi tempi, come la più ricca “signorina non sposata” d’America – il termine single non era ancora d’uso corrente e lo stato civile di nubile aveva una connotazione piuttosto negativa. Molte opere della sua collezione sono oggi conservate dal Metropolitan Museum; tele che furono, in molti casi, commissionate specificatamente dalla Wolfe ad affermati artisti del proprio tempo, gran parte dei quali conosceva personalmente. Una collezione che il museo newyorchese ha recentemente riscoperto, tornando ad esporla al pubblico. Tra le tele più importanti, originariamente esposte presso la residenza di Madison Avenue e, in seguito, lasciate in eredità al museo newyorkese, va segnalato il ritratto della stessa Wolfe, che la mecenate fece eseguire ad Alexandre Cabanel. Il lascito più originale della Wolfe fu però la casa di Newport, Rhode Island, dove la collezionista trascorreva tutte le estati: la Vinland Estate. A questo palazzo la collezionista dedicò un particolare sforzo, anche economico, con lo scopo di creare un inconsueto tributo al mito nordico dei vichinghi. La Wolfe era infatti affascinata dall’antica leggenda norvegese secondo la quale questi abili navigatori esplorarono nell’undicesimo secolo, le coste del Nord America. La Wolfe si circondò così di opere d’arte che ricordavano l’eroismo di queste popolazioni, fatte eseguire da talentuosi artisti inglesi, come Edward Burne-Jones, William Morris e Walter Crane.
Le biografie delle donne dell’arte, in particolare di quella americana, sono quindi particolarmente interessanti, ricche di curiosità e di aneddoti originali. Le risorse economiche delle quali queste collezioniste disponevano rendevano possibili progetti altrimenti ritenuti scellerati ma la cui portata culturale rimane, oggi, per molti versi sottovalutata.