In Petra von Kant il personaggio principale è una donna, ricca e aristocratica che, anche se non abbandona mai la propria stanza, ha rapporti con Madrid, Miami, Parigi.
Latella ripercorre uno dei film più riusciti di Rainer Werner Fassbinder, “Le lacrime amare di Petra von Kant”, la storia di una donna matura che trova il suo nuovo equilibrio personale con una giovane ragazza. Le lacrime amare di Petra von Kant è, nella sterminata filmografia fassbinderiana, il dodicesimo lungometraggio. È, soprattutto, il secondo film realizzato dal regista tedesco dopo la sua scoperta di Douglas Sirk e il conseguente avvio del «periodo dei melodrammi».
E’ proprio l’universo femminile il motore principale di questo spettacolo. Non è un caso che per quasi tutta la durata della rappresentazione la scena sia dominata da una grossa statua di donna nuda alta cinque metri. L’assenza dei vestiti è soprattutto un invito a sciogliere qualsiasi tipo di legame e di codice che ogni essere umano instaura con la società e con gli altri individui che ne fanno parte. Questa figura non solo osserva silenziosa i movimenti delle piccole figure che si muovono sotto il suo sguardo ma riveste anche il ruolo di “spalla”. E’ come se dovesse sostenere, consolare, proteggere le debolezze umane universali. Chiunque entri sulla scena sente il bisogno di appoggiarsi alla sagoma femminile per evitare di cadere in una delle molteplici trappole che il quotidiano è pronto a innescare. Qualsiasi speranza all’umanità viene negata. Nessuna illusione viene regalata. Fuggire il dolore sembra una cosa difficile se non impossibile.
Nonostante una buona cura dell’estetica (luci, costumi in primis) Antonio Latella non riesce a riprodurre fino in fondo gli elementi claustrofobici e laceranti della pellicola del 1972. Anche se accennata, manca l’alternanza tra i suburbi proletari con i milieu esclusivi dell’alta borghesia, dei fruttivendoli con le disegnatrici di moda – e l’alternanza di archetipi maschili e femminili. Latella, invece, centra l’obiettivo mantenendo fedelmente lo sguardo del regista che nel film non è mai parziale, ma costantemente obiettivo. Di volta in volta situazioni individuali vengono iscritte in una costellazione più generale: il disegno dei rapporti tra individuo e società (tra individuo e individuo) nella Germania degli anni settanta.
Fondamentale sia nel film che nella trasposizione teatrale risulta essere la dialettica padrone-servo e quindi tra Petra e la sua cameriera, Marlene. Nonostante Marlene sia sempre muta, costituisce una semplice presenza attiva solo all’apparenza supina agli ordini della dispotica Petra. Seguendo l’ottica hegeliana, il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone è il servo. Infatti il rimedio di asservire l’altra autocoscienza senza eliminarla, in realtà porta comunque all’eliminazione di essa, poichè si finisce per considerare l’autocoscienza-serva non più come un’autocoscienza, ma come una ‘cosa’.
Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo come una cosa, alla pari del bue o dell’aratro. Ne consegue che, essendo il servo una ‘cosa’ agli occhi del padrone, l’unico ad avere di fronte a sè un’autocoscienza è il servo appunto, poichè egli, nel padrone, continua a scorgere un’autocoscienza. Ed è proprio il finale dello spettacolo che risolve, senza possibilita’ di salvezza, questa intricata dialettica.
di Rainer Werner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Antonio Latella
scene e costumi Annelisa Zaccheria
disegnatore luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
ideazione ombre Massimo Arbarello e Sebastiano Di Bella
con Laura Marinoni
e Silvia Ajelli, Cinzia Spanò, Sabrina Iorio, Stefania Troise, Barbara Schroer
e gli animatori d’ombre Massimo Arbarello e Sebastiano Di Bella
produzione Teatro Stabile dell’Umbria – Fondazione del Teatro Stabile di Torino
in collaborazione con Théatre National Populaire TNP Villeurbanne – Lyon
al Teatro Argentina di Roma dal 21 novembre fino al 3 dicembre