La canzone impegnata suscita ancora emozione, ricordo e memoria nel popolo friulano
Ieri sera migliaia di giovani hanno riempito il castello di Udine in occasione dell’unica tappa in Friuli del tour estivo del gruppo modenese dei Modena City Ramblers. Due ore di canzoni davanti ad una folla che ha ballato e cantato per l’intera durata del concerto hanno accompagnato la terz’ultima tappa del loro ultimo tour prima di prendersi un anno di pausa. Intanto i loro fan già gli aspettano, ansiosi di ascoltare ciò che questo silenzio produrrà.
Contro chi diceva che la canzone impegnata non raccoglieva più consensi, che non entrava più nei cuori della gente ecco la risposta venire da migliaia di giovani e non, assiepati sotto un palco, uniti dalla passione per i Modena City Ramblers e per quei valori che sopravvivono nelle loro canzoni.
Giovedì 27 luglio era quasi in 3.000 a saltare ed agitarsi sul prato del Castello di Udine impossessati dalle sonorità travolgenti, eclettiche, perturbanti del gruppo modenese.
Un miscuglio di generi differenti, dalla musica etnica a quella folk, passando per la world music hanno fatto dei Modena City Ramblers uno dei gruppi più apprezzati del panorama musicale italiano nonostante la loro musica non rientri nel turbinio del mercato puramente commerciale e sia estranea a speculazioni e mercificazioni di qualsiasi genere fatte per assecondare la massa.
Alla pari di altri gruppi come i Nomadi, i Giganti o di cantautori come Guccini, De Gregori, riescono sempre a riempire i loro spettacoli di passione, di memoria, ricordo, impegno sociale e protesta.
I loro testi sviscerano quelle passioni nascoste, quella insofferenza per un mondo che non c’è ma che si sogna e al quale si guarda, fanno sentire la voce del popolo a tutti quelli che “lassù” non vogliono ascoltare e si tappano le orecchie.
Oltre ai suoni, la vera forza trainante dei Modena City Ramblers sono le parole, taglienti e spesso tristi che rievocano passioni e ricordi.
Valori estemporanei, periodi sfuggiti, realtà a molti sconosciute sono le immagini che riempiono le menti di chi ascolta la loro musica.
Immagini che la band ha scelto come sfondo alle loro canzoni, accompagnati da un maxischermo che proiettava i loro video, fotografie in bianco e nero dei campi di sterminio nazisti, delle difficili condizioni delle genti del sud america e dell’africa, hanno cantato canzoni come Auschwitz, accolta da un boato, Viva La Vida, inno alla forza rivoluzionaria e ispirata da quel “Viva la vida muera la muerte” (titolo di un loro cd) dei gruppi rivoluzionari zapatisti del Chiapas, La Grande famiglia, Macondo Express, la struggente e tagliente Ebano, Spara Juri, I cento passi, durante la quale campeggiavano alle spalle del gruppo le immagini di Peppino Impastato e di sua madre, una canzone-ricordo di tutti quelli che hanno pagato anche un solo momento di libertà dal giogo della mafia con la vita, hanno poi continuato con Terra del Fuoco e Una perfecta Excusa.
Il concerto si è poi concluso con Bella Ciao, canto partigiano che tutta la platea ha voluto cantare e ballare assieme dando sfogo alla propria energia e dimostrando che rimane un inno alla libera espressione delle proprie passioni.
Una simbiosi, quindi, di immagini e suoni che è servita a tenere sempre viva l’energia e la vitalità di centinaia di persone.
Un connubio che ha permesso a chi era presente di entrare nella musica, di farsene interprete e soggetto, di viverla nella sua pienezza e nella sua densità di pensieri.
Questo è il potere della musica dei Modena City Ramblers, la magia delle loro canzoni e di quei loro suoni nati dall’immagine della vecchia e verde Irlanda e colorati con le sonorità, le ballate, il folklore della tradizione culturale tipicamente emiliana.
La poliedricità del gruppo modenese è latente anche strumentalmente.
Un accorto utilizzo di una grande varietà di strumenti musicali conferisce alla loro musica una certa mobilità di suoni e un marcato trasformismo che permette la sperimentazione di soluzioni musicali innovative.
Grazie alla collaborazione di Daniele Contardo e Luca Giacometti hanno potuto utilizzare strumenti normalmente poco impiegati e conosciuti come l’organetto, la fisarmonica, i plettri, il mandolino, il bouzoki e il banjo conferendo al suono sfumature della tradizione balcanica, sud americana, dell’Est europeo dimostrando come l’impegno sociale del gruppo sia anche motivo di incontro/confronto (musicalmente parlando) con le altre culture, motivo di stimoli e innovazione a testimonianza del fatto che la musica è una delle forme d’arte tra le più ricettive, sperimentali, aperte, un contenitore di messaggi universali.