Già qualche anno fa, direttore De Hadeln, avevamo avuto la possibilità di conoscere alcuni dei capisaldi del cinema sovietico passati decenni prima alla Mostra: la rassegna “Falce, martello e fascio” riproponeva alcune delle pellicole della terra dei Soviet passate ed ammirate a Venezia negli anni Trenta (in pieno Ventennio dunque) che avevano stupito anche alcuni gerarchi fascisti per la verve e la bontà della fattura artistica (non certo per il “messaggio”). Già in quel caso avevamo avuto modo di vedere alcuni musical sovietici, genere importato in URSS da Grigorij Aleksandrov, collaboratore di Ejzenstejn, quando era stato con lui in America; genere che, come ben dimostra questa nuova retrospettiva “La storia segreta del cinema russo” ha goduto di una vitalità e di una varietà insospettabili, partendo dai primi classici degli anni Trenta per poi trasformarsi ed adeguarsi agli sviluppi della società sovietica fino ad un musical-melodramma con tocchi di romanticismo alla francese quale è la Romanza sugli innamorati di Andrej Koncalovskij, uscita nel 1974.
Pur ostacolato a tratti dalle gerarchie di partito (che dovettero però poi chinare il capo quando Stalin espresse apertamente il suo apprezzamento per il genere), questo tipo di trasposizione godette di ampio successo di pubblico, legato com’era a canzoni orecchiabili e ad una sorta di star-system in salsa sovietica che doveva, secondo le direttive staliniane, sostenere la nascita di una “Hollywood sul Mar Nero”, cioè di un’industria del prodotto di intrattenimento che concedesse un momento di evasione al cittadino sovietico oberato di lavoro e terrorizzato dalle purghe di massa. Nacquero delle vere e proprie dive come le mogli dei due principali esponenti del genere (le bionde e ridanciane Ljubov’ Orlova e Marina Ladynina), si fecero apprezzare dei compositori ispirati quali Isaak Dunajevskij, si crearono insomma degli staff affiatati e rodati per una sorta di produzione a catena di musical comedies incentrate via via su un diverso problema della linea generale del partito.
Per quanto film come Scedroje leto (Un’estate generosa, 1950) di Boris Barnet o Vesjolyje rebjata (La combriccola allegra, 1934) di Grigorij Aleksandrov conservino anche ai nostri occhi smaliziati tutta la loro carica estetica e una notevole dose di intrattenimento, non si parla qui di film di pura evasione, come si comprenderà. Come criterio di maggiore o minore riuscita potremmo anzi adottare la capacità del dato film di integrare una innocente vicenda amorosa e il ritmo delle canzoni (per lo più originali e trascinanti) con i fini propagandistici che la commissione statale poteva legare alla pellicola. Se i due principali autori che si dedicarono con maggiore continuità a questo tipo di film sono Ivan Pyr’ev e Grigorij Aleksandrov, notiamo anche come i film del primo siano per lo più ambientati in campagna, spesso nelle vaste terre fertili dell’Ucraina (con conseguente uso occasionale di questa lingua, più popolare e “rustica”), mentre il secondo poteva non solo dedicarsi all’ambiente metropolitano, all’industria ed alla ricerca scientifica (altri due dei campi di sviluppo principali dei piani quinquennali), ma si permetteva anche una maggiore libertà tematica che poteva toccare la fiaba classica (Svetlyj put’, Il cammino luminoso, una sorta di “Cenerentola” delle industrie tessili) o anche le questioni razziali (Cirk, Il circo, in cui il popolo sovietico accoglie benignamente il figlio di colore di una artista scacciata da un’America “intollerante”).
In molti di questi film, soprattutto nelle fiabe rurali di Pyr’ev, la linea narrativa ritorna con una certa costanza elementare: il gruppo delle lavoratrici donne cerca di superare la produttività dei colleghi maschi (l’emulazione come principio base della società socialista), si presentano alcuni problemi di entità genericamente non insormontabile (ci si muove comunque in una versione necessariamente edulcorata delle questioni sociali), oppure l’azione di un qualche “sabotatore” minaccia la realizzazione degli arditi obiettivi imposti dal piano di lavoro. A differenza che nei film storici o nel cinema classico del primo periodo sovietico, il nemico del popolo è qui rappresentato da un elemento della comunità per lo più ancora recuperabile grazie all’esempio della sua parte sana, e gli stacanovisti/eroi del lavoro riescono a festeggiare nella canzone conclusiva i nuovi record superati e la forza progressiva del mondo sovietico guidato dall’esempio instancabile del “generalissimo” Stalin (si parla naturalmente di film per buona parte precedenti il XX Congresso del PCUS e la successiva destalinizzazione della cultura).
Altro fattore ricorrente, comune sia al metropolitano Aleksandrov che al rurale Pyr’ev, è la gerarchia dei valori fra aspirazioni individuali e necessità collettive: la coppia di eroi scopre di piacersi (con rossori infantili ed una pruderie tipica di stilizzazioni del genere, oltre che obbligati in quel contesto geografico), ma sottomette la propria felicità alla realizzazione dei compiti del kolchoz o della fabbrica in cui lavorano. Il coronamento del loro amore è sempre ed inevitabilmente conseguente al nuovo record di produttività realizzato o al raggiungimento dell’obiettivo posto dalla linea del partito (che sia esso l’ammodernamento della zootecnia o il miglioramento del lavoro al telaio industriale).
Il superamento della “Norma”, della quota imposta come minimo lavorativo per la ricostruzione agricolo-industriale della “sesta parte del mondo”, è realizzato sullo slancio dell’entusiasmo collettivo, che brucia i dubbi, riunisce le fila dei lavoratori visti come gioiosi combattenti e solo successivamente concede loro il dono della felicità matrimoniale. L’ossessione, l’istigazione compulsoria, a tratti comica, al superamento del limite sfonda alla fine del film la parere del baco, fa nascere la farfalla dell’uomo nuovo, che solo così rigenerato o riconquistato alla società del futuro può formare un’ulteriore cellula di produzione autoconvintasi in un loop di coercizione collettiva (quello che noi generalmente chiamiamo “famiglia”).
C’è comunque da dire che, almeno nei loro intenti propagandistici, i film non sostengono mai una visione penitenziale della vita (il lavoro è anzi la più alta fonte di piacere e di soddisfazione psichica), e non negano mai il valore rigenerante del buon cameratismo bolscevico e del sano ed equilibrato divertimento: si veda l’antesignano del genere, il medio-metraggio Garmon’ (La fisarmonica, 1934) di Igor Savchenko, che fonda il suo messaggio appunto sulla giusta integrazione di gioia di vivere e coscienza dei propri doveri di classe.
E’ un genere che, almeno nella sua forma pura degli inizi, doveva contribuire all’edificazione di una felice mitologia nazionale (sociale e quotidiana più che politica) che si ricollegasse ai modi del racconto folklorico russo ed alla favola, in cui il superamento degli ostacoli e le prove di virtù cui sono sottoposti gli eroi sono aggiornate tematicamente all’epopea forzata dell’edificazione del socialismo e ad una volontaristica costruzione a tappe forzate di un uomo nuovo che non aveva scelta: o essere escluso dal consesso sociale o diventare sovietico ed ottimista, uno degli “allegri ragazzi” del nuovo mondo (come da titolo originale del film di Aleksandrov del 1934).
In opere successive l’allegria di prammatica si colora di accenti satirici neanche troppo nascosti: si veda il meraviglioso finto racconto per bambini Spasite utopajuscego (Salvate chi annega, 1969, di Pavel Arsenov), o diventa un musicarello dove gli elementi di artificialità propri del genere vengono esasperati dallo zoom, da una scenografia pastello oleografica o da colori sgargianti e pop (Cheriomushki, Rione Cheriomushki, 1963, di Gerbert Rappaport).
Nel complesso una delle poche cose per cui valeva davvero la pena venire a questa ennesima edizione della Mostra: un grazie sentito ai curatori.