“Mi chiamo Antonino Calderone” di Dacia Maraini

Martedì 9 febbraio, alle ore 20,45, debutta al Piccolo Eliseo Patroni Griffi lo spettacolo Mi chiamo Antonino Calderone, testo di Dacia Maraini, interpretato da Pino Caruso che ne cura anche la regia.

Pino Caruso in

Mi chiamo Antonino Calderone

di Dacia Maraini, da Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi

regia Pino Caruso

produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo, Teatro Stabile di Catania

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«Mi chiamo Antonino Calderone. Ho cinquantasei anni e ho molte cose da dire sulla mafia». Comincia così la confessione di uno dei più noti pentiti della mafia e con queste stesse parole comincia il nuovo testo teatrale che Dacia Maraini ha scritto per lo Stabile di Palermo ispirandosi a Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi.

Potente boss, Calderone ha potuto controllare gli affari della mafia catanese fino al settembre 1978, quando Nitto Santapaola decise di far uccidere il suo amico Pippo Calderone, che si era schierato contro i Corleonesi. La sua famiglia perse la seconda guerra di mafia contro Santapaola e tra le vittime vi fu il fratello Giuseppe. Calderone dovette fuggire dall’Italia e si rifugiò in Francia, dove per qualche anno mise in piedi una piccola attività di lavanderia. Fu arrestato proprio in Francia e, dopo alcuni mesi di galera, decise di collaborare con la giustizia e di sottoporre quindi al programma di protezione se stesso e la sua famiglia. Giovanni Falcone si recò più volte in Francia per ascoltare le clamorose rivelazioni che portarono a circa 200 arresti.

Diceva Voltaire, prendendo in prestito una massima di Erasmo, che ogni buon racconto è come un uovo, che, covato, genera altri racconti, all’infinito. La bella memoria, se è possibile considerare bella la confessione di un pentito, di Antonino Calderone, raccolta da Pino Arlacchi, ha già suscitato tanti e diversi racconti. L’ultimo, in trascrizione teatrale, questo di Dacia Maraini, che a sua volta sarà raccontato in palcoscenico da Pino Caruso.
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LE CONFESSIONI DI UN KILLER di Dacia Maraini

Un assassino può suscitare simpatia? A volte sì, se assistiamo alla sua trasformazione, se seguiamo da vicino il travaglio che lo abita e lo riempie di dolore. Quest’uomo è Antonino Calderone, mafioso appartenente alla famiglia catanese, sopraffatto dalla violenza e dalla rapacità dei corleonesi che, a furia di brutalità cieca e delitti spietati, hanno preso in mano la criminalità organizzata siciliana.
Calderone ha raccontato la sua vita a Pino Arlacchi che ne ha fatto un libro. E io ho raccontato a mia volta, in forma teatrale, la storia di quest’uomo dalla vita avventurosa e difficile, inseguito dalla vendetta.
Un uomo mite, non portato per carattere ai delitti, ma pur trascinato dalla storia familiare e dall’intimità col fratello, mafioso di rango, a pungersi il dito e accendere col fiammifero la famosa immaginetta della Madonna.
Un uomo costretto a fare sue le regole dell’omertà e del terrore, fino al punto da partecipare all’uccisione di tre bambini che avevano assistito senza saperlo all’assassinio di un “ribelle”. Forse sono proprio quei bambini a fare nascere un barlume di indignazione in un cuore incallito. Fatto sta che da quel momento Antonino Calderone comincia a tenersi da parte, a chiudersi in casa, a rifiutare la partecipazione attiva alle imprese della mafia. E infine, dopo l’omicidio del fratello deciderà di fuggire all’estero. Dove comunque non avrà pace, fra i sospetti della polizia internazionale, le vecchie denuncie che tornano attive, la vendetta dei corleonesi che continua a gravare sulla sua testa.
Il racconto che ci fa il mafioso pentito certo pecca di reticenze, di deformazioni, di aggiustamenti di punti di vista. Ma il fondo è sincero e lo si capisce dal tono delle verità che racconta. Calderone, palesemente semplice nella sua implicita complicazione, ci rivela piano piano se stesso, le ombre che premono sulla sua coscienza. La cosa sorprendente è che tutto, alla fine, contribuisce alla formazione di un giudizio obiettivo sulla mafia. E il giudizio personale, intimo, non può non trasformarsi in una larvale ma schietta consapevolezza culturale.
È ciò che vorremmo accadesse a un popolo, quello italiano, ancora troppo prigioniero dalla filosofia del “tanto non cambierà mai niente”.
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UNA TRAGEDIA SOTTOVOCE di Pino Arlacchi

Le opere e i giorni di un mafioso, e il mondo arcaico e brutale di Cosa nostra siciliana non erano mai stati fatti rivivere a teatro con la stessa vividezza, intelligenza e profondità dell’interpretazione di Pino Caruso. Egli è riuscito a compiere un’impresa che sembrava impossibile: generare una narrativa sulla mafia italiana all’altezza di quella sulla delinquenza organizzata degli Stati Uniti. Mi chiamo Antonino Calderone è in grado di reggere il confronto con il capolavoro di Mario Puzo, con la serie televisiva dei Sopranos e con il film di Martin Scorsese su Quei bravi ragazzi.
La scelta di una chiave espressiva che aderisce strettamente ai fatti ed ai personaggi, i toni sobri della recitazione, e i contenuti secchi, essenziali del racconto che rifuggono dall’enfasi retorica e dagli stereotipi correnti sulla mafia siciliana, sono gli ingredienti di una narrativa che finisce con l’avvincere come una tragedia greca. Siamo nel campo della vera arte, e perciò anni luce lontani dalle fiction semi-demenziali su Cosa nostra, con i loro attori dalle facce di bambocci, la loro Sicilia da spot pubblicitario, e l’insopportabile banalità dei dialoghi, degli ambienti e degli intrecci.
Grazie, Pino Caruso. Mi sembrava di vederlo, Nino Calderone, raccontare davanti a me e al registratore con la sua voce bassa e con i suoi toni dimessi le cose più terribili, le sofferenze quasi indicibili, gli atti più osceni e depravati cui aveva assistito e partecipato.
Grazie, Caruso, per avere reso il senso del delitto, del castigo e del pentimento trattando la materia con tocco lieve, modesto, talvolta perfino ironico, senza declamare dalla terrazza del Grand Hotel sull’abisso, né fare la predica antimafia a nessuno. Perché è da questa miscela di furie demoniache e di discrezione espositiva che nasce il pathos singolare di questa rappresentazione, e la potenza nascosta del suo messaggio di liberazione.
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UN MAFIOSO SENZA TALENTO di Pino Caruso

Antonino Calderone era un mafioso senza talento e persino senza voglia, che si era fatto mafioso per un errore di lettura della società e dei suoi modelli. Il carabiniere – simbolo di uno Stato, per giunta inefficiente, quando non connivente – mal pagato, mal protetto, abbandonato a se stesso, anche fisicamente, o sulle trazzere di campagna o lungo le strade polverose dei paesi, o nella desolazione dei viali di periferia, ostaggio di una cultura che gli era avversa, di una morale rovesciata (quella dello sbirro, nemico dei galantuomini), esposto continuamente al pericolo, alla ritorsione, reso impotente da tutto questo insieme, sino al punto di apparire stupido, non era, né poteva essere, figura cui affidare le proprie aspirazioni e i propri sogni.
Di contro, e a contrasto, il mafioso ricco, potente, misterioso, inattaccabile, che appariva persino intelligente e astuto, rappresentava l’ideale da perseguire per un giovane che avesse ambizioni.
Diventa, infatti, l’ideale di Antonino Calderone. «Solo non mi andava di uccidere», precisa. Paradosso fra i tanti di un’organizzazione tutta paradossale: un mafioso cui non va di uccidere è come un chirurgo cui non andasse di operare. Tuttavia Calderone aggiunge: «Ma io, allora, ci tenevo ad essere iniziato». Come dire: alla legge ci si può sottrarre, al costume e alla cultura nella quale si vive, no. Ne viene che bisognerà ricominciare da una moralità che si faccia cultura e costume. Ma il caso di Antonino Calderone, più che un fatto giuridico, è un evento umano. Calderone è un pentito vero, pentito nell’accezione letterale del termine, pentito cosciente delle atrocità commesse. Ed è questa coscienza, dormiente per anni e poi risvegliata, che lo carica di rimorsi, lo affligge e non gli dà pace. Lo racconta lui stesso, con la forza della sincerità, quando, ripensando ad un delitto commesso, ci chiede se vogliamo sapere cosa ha provato. «Niente!» risponde, «la mia anima non c’era! La coscienza non esisteva».
Ed è su quest’anima finalmente ritrovata – ma in pena – e recuperata alla società civile, che ho preferito incentrare lo spettacolo; lasciando al resto il posto che gli compete, di cornice dei fatti e dei pensieri.

PICCOLO ELISEO PATRONI GRIFFI, Via Nazionale, 183 − 00184 Roma
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ORARIO SPETTACOLI: Martedì, giovedì, venerdì – ore 20,45 / Sabato ore 16,30 e 20,45 /Mercoledì e domenica – ore 17,00. Lunedì riposo
COSTO DEI BIGLIETTI: poltronissima 22 euro – poltrona 16 euro