Da Marzo in libreria
Salvatore Niffoi, Il pane di Abele
«Vrades pro sempere!», fratelli per sempre: questo si giurano Zosimo e Nemesio il giorno in cui quest’ultimo lascia il paesino di Crapiles per andare a iscriversi all’università. Zosimo, che a Crapiles ci è nato, rimarrà a fare il pastore: come suo padre, come il padre di suo padre. Sebbene così diversi, i due ragazzi sono stati amici dal giorno in cui la famiglia di Nemesio è arrivata in paese dal «continente». Ed è stato proprio il piccolo forestiero, coi riccioli che sfuggivano da sotto il cappello foderato di pelliccia e «due occhi color prugna acerba», a staccare da una grondaia una lunga «spada di ghiaccio», a spezzarla e a regalarne una metà a Zosimo, che lo guardava stupefatto: «Questa è la spada del generale inverno,» ha dichiarato con la serietà di cui sono capaci i bambini «che si divide solo con un nuovo amico!». Da quel momento sono stati inseparabili: Zosimo ha portato Nemesio a casa sua, dove lo hanno accolto come un figlio, gli ha insegnato a mangiare formaggio di pecora con il pane crasau, e a cercare nei boschi i nidi dei colombacci. Nessun dubbio, nessun sospetto, nessun cattivo pensiero può scalfire nell’animo puro di Zosimo l’amore per l’amico. Così come nessuna malalingua potrebbe gettare un’ombra su quello per la bella Columba, di cui fin da piccolo è innamorato e che sta per diventare sua moglie. Dopo la partenza di Nemesio le loro strade si divideranno, ma solo per tornare a incrociarsi molti anni dopo: e allora, cadute le maschere, scoppierà il dramma.
In questo romanzo Niffoi ci racconta con mano sicura una vicenda di amore e di amicizia che conferma le sue straordinarie doti di narratore di storie, anzi, di vero e proprio cantastorie: uno di quelli ancora capaci di incantarci con una fantasia lussureggiante – e con la musica di una lingua potentemente suggestiva.
Irène Némirovsky, I doni della vita
Pierre Hardelot, erede delle omonime cartiere, ha una fidanzata rosea e grassoccia che la famiglia ha scelto per lui, ma è innamorato di un’altra: una che non gli consentiranno mai di sposare, perché appartiene alla piccola borghesia, e non ha dote. Eppure, alla vigilia del matrimonio, Pierre decide di infrangere quella invisibile ma solida barriera «fatta di buon sangue, di carni robuste e sane e di risparmi investiti in titoli di Stato, una barriera destinata a proteggere per sempre i giovani dalle insidie della sorte e dalle loro stesse passioni», e la legge non scritta per la quale di generazione in generazione accoppiamenti giudiziosi stringono sempre di più i legami tra le poche famiglie che contano della ricca borghesia di provincia – e sposa la donna che ama. Comincia così «il grande romanzo classico» di Irène Némirovsky: trenta capitoli in cui, attraverso la storia degli Hardelot, si percorrono trent’anni di storia francese, da quelli che precedettero la prima guerra mondiale a quelli che vedono (nel momento stesso in cui Irène racconta gli eventi mentre stanno accadendo) l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi. E qui – nelle pagine conclusive del romanzo, allorché si compiono i destini dei personaggi che ha seguito con il suo sguardo affettuoso e ironico – Irène Némirovsky ci stupisce ancora una volta, dimostrando (esattamente come in Suite francese, la cui stesura portava avanti in parallelo, e di cui I doni della vita si può considerare una sorta di prova generale) una lucidità quasi profetica su quelli che saranno i destini dell’umanità tutta.
Sergio Solmi, Opere, IV – Saggi di letteratura francese
«Il presente saggio riflette una storia personale, la storia di una lunga, se così posso chiamarla, avventura intellettuale, che si svolge nel flusso di una durée» scriveva nel 1974 Solmi introducendo il celebre Saggio su Rimbaud. Ma le stesse parole avrebbe potuto in realtà riferirle all’intera letteratura francese, da lui indagata con passione inesausta nel corso della sua vita di studioso e saggista. Passione che traluce più che mai negli scritti qui raccolti, in cui l’appartato itinerario di Solmi raggiunge le vette più alte, là dove lo sguardo abbraccia prospettive sconfinate: «Che cosa sarebbe scrivere d’arte, di critica, se non fosse, in pari tempo, scrivere della vita?». Il Saggio su Rimbaud, sorta di testamento spirituale di Solmi, e senza dubbio una delle prose più nitide del secondo Novecento italiano, offre un esempio indimenticabile di lettura empatica, a distanze siderali da tanta letteratura accademica: «… mi pare di aver capito Rimbaud dalla contemplazione del suo paesaggio più che da tutti i volumi scartabellati nella Biblioteca di Charleville». Ma non meno memorabili sono i contributi che compongono la seconda parte del volume: studi, minuziosi e appassionati, dedicati a scrittori e poeti francesi del secondo Ottocento e del primo Novecento, scrupolosamente indagati nel loro percorso artistico e spesso ritratti con efficaci cortocircuiti. Nella scrittura Solmi capta innanzitutto, e con portentosa precisione, il timbro, quel misterioso parametro che nessuna griglia semiologica è riuscita sinora a imprigionare, e per buone ragioni. È perciò naturale che, radunando questi saggi, abbia intitolato la raccolta La luna di Laforgue: perché Laforgue è per eccellenza il poeta del timbro.
Robert Graves, La Dea Bianca
«… uno dei pochi sommi capolavori del nostro secolo … libro denso ed esultante, teso sul filo di una conoscenza minuta della letteratura gallese e irlandese, dei primordi greci ed ebraici». [Elémire Zolla]
« Ho sempre creduto che i grandi libri sulla mitologia siano, essi stessi, dei libri mitologici: ereditano una grande tradizione mitica, la raccolgono, la interpretano; e la continuano, facendo echeggiare di nuovo tra noi quei miti, avvolgendoci nella loro melodia, contagiandoci coi loro suoni, come migliaia di anni fa o in quell’istante miracoloso fuori dal tempo, in cui il mito per la prima volta esplose alla luce. Robert Graves ha portato questo principio sino in fondo … il risultato è un libro straordinariamente ricco e vivo, che di colpo ci fa abitare vicino alla misteriosa Dea Bianca, a Eracle, alle sirene, alle mille divinità celtiche». [Pietro Citati]
John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti
Negli anni della Grande Crisi, John Maynard Keynes si spinge a immaginare, per il denaro e il capitalismo, un futuro molto diverso da quello che tutti prevedono. In quel futuro – che è oggi – e nel pieno di un’altra crisi, Guido Rossi dimostra che le congetture di Keynes erano meno ardite di quanto siano sempre parse.
INFO:
www.adelphi.it