Tra un amore vissuto nel riflesso di un finestrino, il ricordo della propria morte, ancora da venire, un bianco fantasma equino, in una delle ultime notti d’estate, l’impossibile dialogo tra due generazioni agli antipodi, si insinua la scrittura di Cortázar, a colmare gli interstizi emotivi della vita.
“Ottaedro”, pubblicato per la prima volta nel 1974, è un libro di appena cento pagine. Ci si domanda se, con la densità della scrittura di Cortázar, tra gli autori più originali della letteratura sudamericana del XX secolo, un maestro nel genere dei racconti brevi fantastici, sarebbe stato possibile andare oltre, continuare queste storie in sé perfette.
In geometria solida, l’ottaedro è un poliedro con otto facce, un solido regolare, i cui lati sono triangoli equilateri. In letteratura, “Ottaedro” è un piccolo tesoro di parole, otto parti per otto racconti, otto porzioni di vita narrate in maniera magica. Come già quella di Jorge Luis Borges, la tecnica narrativa di Cortázar fu definita “realismo fantastico” dai teorici della narrativa sudamericana, sebbene i due, sotto altri punti di vista, non potrebbero essere più diversi; la prosa di quest’ultimo, infatti, più sperimentale e concitata, ha nel flusso di coscienza, nell’abolizione della punteggiatura, nell’invenzione di neologismi, i suoi pilastri narrativi.
I racconti di “Ottaedro” assomigliano a frammenti: quelli di uno specchio rotto, ancora legati seppur sparpagliati sul pavimento, che a rimetterli assieme si otterrebbe l’immagine completa. Un ottaedro, appunto.
Storie avvinghiate le une alle altre, sotto la superficiale disparità di nomi, in cui il protagonista principale non sembra mai essere colui che parla, colui che scrive, o a cui quelle parole, scritte o dette a voce, paiono rivolte, ma qualcos’altro, qualcun’ altro, di non presente, anzi, di invisibile eppur vivo, sentito, tangibile, qualcosa che sia stato volutamente taciuto, allontanato, e ritorni a farsi sentire, a far sentire la propria presenza tra gli uomini. Fantasmi. Sentimenti o individui celati nelle crepe del presente, nelle fratture createsi nella quotidianità, nella regolarità degli eventi. Nei racconti di “Ottaedro” si è sempre perfettamente svegli, eppure par quasi di trovarsi in quei sogni così nitidi, da sembrare veri, troppo veri: un’irruzione di forze estranee nell’ordine degli eventi considerati reali, perturbazioni del normale che permettono la percezione di dimensioni occulte, la cui comprensione può rimanere celata.
Nell’uomo che immagina la propria morte senza mai citarla, nelle fasi mistico-magiche attraversate da Severo, attorno a cui tutti, parenti e amici, si riuniscono, nel gioco dei guanti che si sfiorano in metropolitana, nella notte concitata trascorsa a rincorrere un animale furioso, ci si lascia sedurre da una scrittura incantata, dove il tempo scorre seguendo regole proprie, lo spazio si dilata, le parole hanno mille volti da far scoprire. Cortázar affascina, incanta: sarebbe davvero un peccato resistere alla vertigine del sogno. O della realtà, chissà.
J. Cortazar, Ottaedro, Torino, Einaudi, 2007, pp.106