Ho avuto modo, recentemente, di rivedere il film che Mario Camerini ricavò dai Promessi sposi nel 1940.
Dirò subito che si tratta di un’opera niente affatto volgare. Anche se non convince, e dirò poi perché, vale la pena di esaminarla con un po’ di attenzione.
Per cominciare,la sceneggiatura è senz’altro buona: eseguita con molta cura, voglio dire.
E’ vero che si sono dovuti sacrificare parecchi episodi del romanzo, e nemmeno dei secondari; ma i tagli, dove sono stati fatti, non pregiudicano mai la piena comprensibilità della storia principale, che è pur quella di Renzo e Lucia.
Certo: dell’episodio della Monaca di Monza non è rimasto che un accenno; e un accenno, per giunta, che resterebbe di per sé incomprensibile (abbandonando Lucia ai suoi persecutori, la Signora piange: ma perché mai!?), ove non potesse venire integrato da quanto, su questo argomento particolare, il Manzoni ha detto nel suo romanzo.
Manca anche il ménage milanese di Don Ferrante e Donna Prassede: totalmente, mi pare. Però meglio così, dopo tutto, piuttosto che darne, come dell’episodio della Monaca di Monza, uno spezzone insufficiente.
E mancano, com’è naturale, moltissime altre cose. Ciò nondimeno nel complesso, ripeto, la sceneggiatura mi sembra tagliata con notevole abilità. Non è piccolo merito, direi, aver costretto la vasta materia del capolavoro manzoniano nel breve ambito di uno spettacolo di due ore: e questo, senza che lo spettatore abbia la sensazione, quasi mai, né di esser defraudato dell’essenziale, né di essere oppresso dal numero e dalla costipazione delle cose.
Anche gli attori furono scelti quasi sempre a proposito.
Benissimo cervi, nella parte di Renzo: un renzo Giovane, onesto, impetuoso, e lombardo come deve essere.
Magnifico, difficilmente superabile nei panni di don Abbondio, il povero Armando Falconi: il quale ha saputo rendere quell’impasto grottesco e patetico di viltà e bonomia, che distingue il carattere del curato di Olate, con straordinaria immedesimazione.
Ben resi anche gli altri caratteri, quasi tutti: da Lucia, soave e commovente, a Don Rodrigo, giustamente ripugnante; dall’Innominato a padre Cristoforo, impersonato, quest’ultimo, da un attore spagnolo del quale non ricordo il nome, ma i cui occhi febbrili, ascetici, da monaco della Controriforma, davvero non si dimenticano.
Qualche riserva sarà doveroso avanzarla a proposito della recitazione di Ruggero Ruggeri, chiamato a indossare la porpora del cardinal Federigo Borromeo: un cardinal Federigo un po’ troppo dannunziano, nel tono della voce e nel gesto indugiante e prezioso, per convincerci della buona lega della sua santità.
Ma nel complesso, come dicevo, per ciò che si riferisce alla scelta degli attori, si ha l’impressione che sarebbe molto difficile, oggi, mettere insieme un cast meglio assortito.
Piuttosto manchevoli, questo sì, alcune scene di massa.
La notte che i bravi di Don Rodrigo tentano invano di rapire Lucia, col chiaro di luna, le campane, e il popolo che accorre nella piazzetta del paese; la sommossa milanese, e l’assalto al forno delle Grucce; la processione indetta per stornare dalla città il flagello della peste: tutte queste scene, dalle quali sarebbe stato possibile, anche nel ’40, senza cinemascope, trarre il massimo partito spettacolare, dànno invece una certa impressione di miseria, di cosa messa su alla buona, badando soprattutto a risparmiare. (E non fu così, magari!).
Fanno eccezione, comunque, le scene finali, nel Lazzaretto. Senz’altro di prim’ordine: e da non destare il minimo sospetto di avarizia produttiva.
Ciò premesso (e i pregi, come si è visto, superano di gran lunga i difetti), com’è mai che il film, nonostante la sceneggiatura più che discreta, l’esatta scelta degli attori, la regia attenta e sensibile, l’evidente impegno della produzione, risulti, alla fine tirate tutte le somme, così lontano dal soddisfarci?
Badiamo un momento ai Promessi sposi: a quelli di Manzoni, intendo, che la recente traduzione di Archibald Colquhoun sta oggi rendendo tanto popolari nei paesi di lingua inglese (più in Inghilterra, tuttavia, che negli Stati Uniti).
Alberto Moravia, in un articolo apparso qualche anno fa sul «Corriere della Sera», fece una specie di stroncatura che destò scalpore, accusando il Manzoni di non aver creato, con Renzo, Lucia, Don Rodrigo, ecc., dei personaggi veri e propri, ma semplicemente dei fantocci, privi di vita libera e autonoma.
Il linguaggio dell’articolo era aspro, irriverente: tale, da solo, da giustificare il pubblico scandalo. Ma l’osservazione fondamentale, del resto non del tutto nuova, giacchè ripeteva in sostanza il punto di vista di uno dei pimi e più acuti critici del manzoni, Giovita Scalvini, ed echeggiava le riserve formulate più tardi dal De Sanctis e dal Croce, non avrebbe, per sé, dovuto destare tanto scalpore.
Difatti è vero. I personaggi dei Promessi sposi non sono, a rigore, dei personaggi.
A differenza di un Balzac, di un Tolstoj, di un Flaubert, di un Maupassant, di un Dostoevskij, – a differenza, cioè, di quello che per solito fanno i cosiddetti romanzieri di razza-, il Manzoni non si oggettiva mai totalmente nelle sue creature.
Sopra di esse, per dirla con lo Scalvini, non si apre la gran curva azzurra del libero cielo; grava un’ombra, bensì l’ombra d’una cupola.
O quella di un’altra creatura, aggiungiamo noi, dalle spalle di gigante. E questa creatura di proporzioni michelangiolesche non è che il Manzoni stesso, il quale, incombente e nascosto come un burattinaio, manovra da maestro i fili a cui sono appesi i suoi burattini. A perfezione, non v’è dubbio; facendo compiere loro tutti quei gesti che è giusto che compiano: ma pronto a trattenerli, ferreamente, ogni volta che tentino di sfuggirgli di mano.
Renzo, Lucia, padre Cristoforo, don Abbondio, il cardinal Federigo, ecc., altro non sono, dunque che dei sublimi pupazzi. Anche la Monaca di Monza, sicuro, arrestata per intervento del gran burattinaio («La sventurata rispose…») di qua dalla soglia vietata, dostoevskiana, di quella vita che negli Sposi promessi, d’impeto, era pur riuscita a varcare.
Burattini, pupazzi, teste di legno. E come avrebbero potuto essere diversi da ciò che sono, d’altra parte, se proprio così li ha voluti il Manzoni, se soltanto a questo prezzo egli poteva continuare ad essere, come intendeva il poeta religioso degli Inni sacri, dell’Adelchi e del Carmagnola?
Mentre il Manzoni ci viene raccontando la sua umile storia di umili persone, noi avvertiamo benissimo, ad ogni tratto, la sua riserva aristocratica, il suo ritegno, la sua incredulità nei confronti dei suoi eroi. Ne approfondisce i caratteri quel poco che basta; quel poco che occorre perché essi siano, come devono essere, i protagonisti sufficientemente attendibili, esemplari, della parabola religiosa che a lui preme di illustrarci.
A noi, figli e nipoti dell’Ottocento, borghesi, laici estranei alla problematica religiosa del Manzoni, ha sempre dato molta noia quella lingua toscana che il cantore di Ermengarda, con sovrana non curanza per ogni più facile esigenza di realismo, mette in bocca ai suoi contadini lombardi.
Ma abbiamo torto ad arricciare il naso (torto come critici, beninteso!).
La disinvoltura linguistica del dialogo manzoniano cos’altro è se non il segno, la spia di una religione indifferente alla realtà, alla realtà così com’è intesa dai romanzieri realisti?
La realtà che interessa al Manzoni è tutt’altra, né può essere diversamente, da quella a cui crede, o a cui crede di credere, il nostro Moravia.
Si pensi allo squarcio lirico che comincia: «Addio, monti sorgenti dall’acque…»: tanto per fare un esempio, il più comune.
Lucia è china sul fianco della barca, si lascia portar via, pensa.
A cosa pensa? A cosa può pensare una povera contadina, e per di più nel Seicento?
Il poeta è bene attento a non lasciarsi andare, a non confondere le carte.
Intona, a parte, il suo inno religioso. Nel frattempo, il suo piccolo, umile pupazzo sta lì, con la testa reclinata, obbediente al ruolo che gli è stato dato, arreso sotto la gran cupola del cielo stellato.
Tornando ora ai Promessi sposi del 1940, quelli di Mario Camerini, mi pare che il principale difetto del film consista proprio in questo: nel credito eccessivo che vi si dà ai personaggi della vicenda.
Si è voluto raccontare la storia di Renzo e Lucia abolendo quella sorta di diaframma provvidenziale che il Manzoni ha sempre avuto cura di conservare fra noi e la materia del suo libro. Si è voluto rappresentare l’umile vicenda d’amore dei due contadini lombardi come se essa, ed essa soltanto, potesse effettivamente interessare: prescindendo dal Manzoni, insomma, dalla sua religione, dalla sua ironia.
Da ciò deriva, al film, quel sentore di parrocchia, quella patina clericale e provinciale così in disaccordo col cosmopolitico, settecentesco spirito manzoniano.
Eravamo stati chiamati a veder tradotta in immagini una solenne parabola; a riascoltare, espresso in forma nuova e diversa, il messaggio di una grande anima e di una grande intelligenza (così grandi l’una e l’altra, da poter essere confrontate soltanto con quelle di Dante): ma di ciò, che era l’essenziale, non ci è stato restituito niente.
C’è Renzo, sì, e Lucia; c’è fra Cristoforo, e Don Rodrigo, e l’Innominato, e il cardinal Federigo: ma lo spirito che li ha evocati, lo spirito che ne giustifica l’invenzione, quello, purtroppo, è del tutto assente.
Facciamo conto, per un momento, che il romanzo del Manzoni non sia mai stato scritto, e badiamo esclusivamente al film di Camerini. Cosa significa, la storia che vi si racconta? Cosa vuol dire, al di là di quello che dice?
Non dimentichiamolo: siamo nel 1940, col fascismo e la Chiesa ancora alleati, ahimè.
Ebbene, come si può pretendere che un film di questo tipo, corretto fin che si vuole, ma nato pur sempre in quel clima di meschino, tremebondo conformismo che tutti abbiamo vissuto, significhi qualcosa di sostanzialmente diverso dalla sua lettera?
Mi sbaglierò. Ma una nuova edizione cinematografica dei Promessi sposi non è possibile decentemente tentarla, oggi, senza che ci si sforzi di esprimere in qualche modo il significato più vero e profondo del libro. Altrimenti, seguendo la falsariga del film del’40, si potrà migliorare qualche scena di massa, rendere più terribile la calata dei lanzichenecchi, ma non è nemmeno sicuro che, complessivamente, si riesca a far meglio di quanto non abbia già fatto Camerini.
Sarà difficile, certo, forse impossibile, recuperare tutta l’ironia, il superiore distacco storico caratteristici del cristianesimo manzoniano. E’fuor di dubbio però che gli inglesi, i quali, con l’Enrico V di Laurence Olivier, hanno saputo darci molto di meglio che non una corretta trasposizione cinematografica di un monumento letterario, aspettano che noi, coi Promessi sposi, facciamo in qualche modo altrettanto: qualcosa di moderno, insomma, di attuale; di vitale per noi e per loro.
Dopo più di un secolo di tenace sordità – un secolo che li ha veduti via via sempre più compromessi nelle nostre sciagure, nelle sciagure nostre e dell’Europa -, gli inglesi hanno finalmente capito ciò che c’ dietro quel sublime «ballo di poveri» che è il romanzo del Manzoni: finalmente hanno fatto loro, anche essi, il suo disperato, italiano, umanissimo «sugo».
La ragione del recente successo inglese del libro è tutta qui, secondo me. La traduzione del Colquhoun, per buona che sia, ha avuto il merito anche maggiore di capitare giusta, nel momento più adatto.
Bisognerà tener conto soprattutto di questo, io penso, prima di mettersi al lavoro.
(1956).
Testo tratto da: “Le parole preparate”, raccolta di saggi critici di Giorgio Bassani. Torino, 1966.
Il sito ufficiale della Fondazione Giorgio Bassani: http://fondazionegiorgiobassani.it