Presentando alla stampa il suo ultimo film, Una sconfinata giovinezza, Pupi Avati si sofferma prima di tutto sul fatto che è una storia d’amore e sul ruolo che nella vicenda ha la sindrome di Alzheimer: “Ho fatto quarantun film, o quarantadue, non ricordo, l’amore è sempre stato presente, ma questa è forse la prima volta che racconto una storia d’amore così esplicita con un lui e una lei che sono portatori di tutta la vicenda. Ero alla ricerca di un pretesto narrativo che giustificasse una storia d’amore. La svolta è arrivata quando ho pensato che fra loro si frapponesse una patologia. Ho vissuto in famiglia l’Alzheimer: ho visto la trasformazione di mio suocero, un commercialista, una persona posata, autorevole, che d’un tratto ha mutato la sua identità iniziando a parlare come un bambino. Questa trasformazione mi ha profondamente inquietato ma mi ha anche sedotto. Perché mi ha consentito di misurarmi con il tempo, che è l’aspetto centrale del nostro mestiere. Del mio cinema, in particolare”.
Misurarsi col tempo, ritornare all’infanzia: da un regista come Avati abituato a giocare con la memoria ci si possono facilmente aspettare elementi autobiografici: “Ho attribuito al protagonista la mia infanzia: mio padre morì in un incidente d’auto, come il padre di Lino e mia zia, come sua zia, andava ogni giorno all’autorimessa a cercare il brillante rimasto tra i vetri frantumati di quell’auto (lo trovò: non mi ci sono pagato gli studi come Lino, ma con quel brillante mi sono fidanzato). E anche mio padre aveva chiamato il suo cane Perché. E la mia iniziazione sessuale è avvenuta allo stesso modo di quella di Lino”.
Confrontarsi con l’Alzheimer è stato compito impegnativo per il protagonista Fabrizio Bentivoglio che dice che per prepararsi non ha voluto incontrare dei malati, ma ha preso ispirazione da un libro fotografico su di loro e dagli “occhi imploranti amore” di quelle foto: “Pupi, che è maestro di antiretorica, mi ha aiutato a non cercare l’effetto drammatico: è stato un lavoro a ‘togliere’. Quando mi ha proposto il ruolo mi ha detto di non fare come Robert De Niro e Dustin Hoffman che in Risvegli e in Rain man erano stati dei cani”. Giudizio tranchant che – spiega lo stesso Avati – nasce dal fatto che i due attori americani, in quei film, “hanno approfittato biecamente delle possibilità più facili, esteriori, che offre l’interpretare il ‘diverso’ – l’autistico, il gay, l’ubriaco. Occorre invece essere capaci di interiorizzare il personaggio”.
Quale scena del film è rimasta di più nella memoria del regista e degli attori? Per Avati, e per Bentivoglio, è quella in cui i due protagonisti giocano a tappi: il regista ha lasciato molta libertà agli interpreti di improvvisare parole e gesti e tutti si sono divertiti a tornare bambini per un po’. Anche per Francesca Neri quella scena è stata molto coinvolgente, ma quella che più l’ha toccata è quella in cui Lino, reso aggressivo dalla malattia, picchia la moglie: “Mi ha provocato molto turbamento, e anche dolore fisico, ma mi è rimasta dentro: non vorrei essere fraintesa, ma lì ho capito come un atto così violento possa rappresentare qualcosa che ti lega ancora di più, perché in quel momento puoi arrivare a pensare che solo tu, con il tuo dolore, puoi riuscire a sanare una situazione malata”.
Sollecitato dalla domanda di un parente di un malato di Alzheimer, Pupi Avati dichiara che Una sconfinata giovinezza “non vuole essere un film consolatorio, ma certamente è un film che cerca di non aggiungere disperazione al dramma della malattia: immaginandosi che il malato si rifugi nella sua infanzia cerca di rendere la malattia compatibile con la vita, non qualcosa di cui liberarsi. Il film concilia la sofferenza con la vita. E i medici che hanno fatto da consulenti al film hanno apprezzato questo approccio in positivo”.
Milano, Cinema Apollo, 5 ottobre 2010
Conferenza stampa di presentazione di Una sconfinata giovinezza. Partecipano Pupi Avati, Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri. Modera Gianni Canova.