Pippo Delbono scrive con “Questo buio feroce” una nuova pagina della sua straordinaria e poetica analisi della contemporaneità. “Una stanza bianca. Vuota. Una scatola senza finestre. Un battito di un cuore che pulsa forte, sempre più forte. Esseri umani sconosciuti tra di loro. Alieni. Eleganti. Dai vestiti antichi e alla moda. Riproducono giochi. Di adulti. Sadici. Violenti. Crudi…” Così si aprono le sue note di regia.
Il nuovo spettacolo di Pippo Delbono nasce dalla lettura di un romanzo, trovato per caso, in cui l’attore ha ritrovato il proprio viaggio, la propria storia. L’autore del libro, Harold Brodkey, considerato uno dei più eccelsi prosatori contemporanei, racconta di come scopre di essere malato di Aids e di essere condannato a morte. Il libro non è tanto un diario di fatti (i progressi della malattia, il decadimento fisico), ma il resoconto di due anni di continuo stato di grazia creativo, due anni di straordinaria lucidità, due anni di “vita vera” concessi proprio dall’imminenza della fine. Una testimonianza di un uomo che affronta la morte a occhi aperti. Si serve dell’esperienza del morire per raggiungere con la sua scrittura la sincerità assoluta, la chiarezza definitiva, perfino – ed è l’ultimo paradosso – un’assurda felicità.
Nella trasposizione teatrale dell’attore-regista ligure c’è la volontà di superare, attraverso una serie di espedienti simbolico-surreali, la semplice raffigurazione di un isolamento o l’ingenua incapacità di comunicare con gli uomini. La solitudine degli esseri umani è una sorta di musica di sottofondo. Il più sembra essere fatto da agenti esterni all’azione. La stanza bianca solcata da fasci di luce dice molto di più delle parole. Il buio che riesce a fendere non è legato allo spazio rappresentato. L’illuminazione ha il preciso fine di nutrire un’anima assetata di vita e vogliosa di rinascere. La spiazzante naturalezza delle brutture fisiche si manifesta con un’agghiacciante normalità. Le diverse figure si perdono continuamente tra racconti esasperati, canzoni o semplice silenzio. Urlano, sussurrano parole con l’implicita consapevolezza di essere ascoltati solo per attimi fugaci.
La rappresentazione è, però, soprattutto un invito a ricodificare il concetto di morte. Delbono ci vuole lasciare un margine di ambiguità (rispetto a quello che presumiamo di sapere) allo scopo di evitare che ci si possa occupare della morte e del morente soltanto quando non è possibile fare diversamente, vista l’ineluttabilità dell’evento. L’esistenza di un morente richiede non frettolose formule rituali, bensì una conoscenza della morte e questa deve essere ricercata in tutto l’arco della vita. Scrive Lama Sogyal Rinpoche “… Non ci è stato insegnato quasi nulla su come aiutare chi muore, anche se è una persona cara o vicina, e non siamo incoraggiati a pensare al futuro del defunto, a come continuerà la sua esistenza, a come possiamo aiutarlo.
Anzi, qualunque pensiero in questo senso rischia di essere bandito come inutile e ridicolo. Tutto ciò ci dimostra con dolorosa evidenza, che ora più che mai abbiamo bisogno di un cambiamento radicale nel nostro atteggiamento verso la morte e i morenti…”
La conoscenza della morte, allora, deve riconsiderare i paradigmi stessi della conoscenza, per estendere la ricerca a filoni poco conosciuti del pensiero filosofico e religioso talvolta considerati sterili appendici di un pensiero magico e, pertanto, inattendibile.
Delbono vuole favorire un avvicinamento che si può prevedere ricco di possibilità formative e di crescita umana oltre che essenziale per trasmettere quelle conoscenze che potranno rivelarsi importanti e necessari al letto e nella vita del “morente”.
Perché la comprensione della morte, della sua natura spirituale e del puro morire non possono essere diffusi in tutta la società? Perché non insegnarla, seriamente e in modo creativo, nelle scuole e nelle Università? Ma soprattutto perché non dovrebbe essere presente nella formazione dei medici e del personale infermieristico?
Difficile ricostruire tutte le suggestioni-fascinazioni presenti sulla scena. Pasolini di Salò, le pitture nevrotiche e torturate di Botero, Frida Kahlo, Caravaggio, il teatro danza di Pina Bausch si mescolano continuamente dando vita ad una struttura uniforme che non lascia mai sbavature o eccessi retorici.
ideazione e regia Pippo Delbono
con Compagnia Pippo Delbono
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione,
Festival delle Colline Torinesi, Teatro di Roma , Teatro du Rond Point Parigi, TNT Thèâtre National de Toulouse Midi-Pyrénées, Maison de la Culture d’Amiens, Le Merlan Scene Nazionale de Marseille, Le Fanal Scene Nazionale de Saint Nazaire, Théâtre de la Place Liegi
scene Claude Santerre
direttore tecnico Sergio Taddei
luci Robert John Resteghini
in scena al Teatro Argentina di Roma dal 3 al 15 ottobre