Viene in mente la vecchia e famosa sigla dell’era baudiana, che nei libri di storia ha soppiantato il ventennio, l’età giolittiana, la seconda repubblica e gli anni di piombo. Perché Sanremo è Sanremo, si cantava, quasi a spiegare che il festival può essere compreso (e accettato) solo tramite tautologie: spiegarlo con altre parole potrebbe causare sconforto, ilarità, raccapriccio. Un po’ come questo paese in cui ci troviamo, costretto a festeggiare il centocinquantenario in uno dei suoi momenti più trash. “Che ci volete fare”, direbbe il padre fondatore Baudo, “succede perché l’Italia è l’Italia”. È così, mentre il belpaese ancora si interroga se sia opportuno fermarsi per un giorno a ricordare che l’unità è festa nazionale, ci pensa il caro festival a premere sul freno, anche se per una serata, e stendere su ogni polemica, ogni turbolenza politica, ogni dimenticabile canzone di questa edizione, un pietoso tricolore.
La bandiera formato-gozilla che inaugura sventolante la serata ci lascia presagire una buona dose di retorica patriottica, un male necessario in ogni celebrazione nazionale; e siccome, ahinoi, in questi casi è anche d’obbligo spegnere lo spirito critico e farsi un po’ trascinare dal sentimento d’appartenenza, decidiamo di seguire la serata affiancati da una simpatica amica albanese che riequilibri lo scompenso, incaricata di bloccarci nel caso che la retorica avesse il sopravvento e ci portasse ad un tuffo carpiato dalla finestra, convinti di essere una freccia tricolore. I big dedicano le loro performance della serata ad un viaggio nella storia italiana attraverso le canzoni che hanno, in un modo o nell’altro, raccontato l’identità nazionale: non troppo originale, ma sensato. Soprattutto, musicalmente parlando, un’ottima occasione che riproporre brani che appartengono ormai alla cultura collettiva in una chiave innovativa, rivisitando arrangiamenti ed interpretazioni.
Obiettivo non sempre riuscito. Ci si poteva aspettare, in fondo, che lo stile tradizionale di Anna Tatangelo poco avrebbe aggiunto a Mamma, o che Pezzali e Arisa poco potessero fare nell’intento di attualizzare la teneramente datata Mamma mia, dammi cento lire, che racconta dell’emigrazione italiana in America. Ma lasciano decisamente l’amaro in bocca la caco-afonia dei La Crus nell’interpretazione di Parlami d’amore Mariù: voce tremolante, soppressa dall’elegante quartetto Gnu e dall’orchestra che schiaccia la labile corda vocale che stenta nell’intonare ciò che è poco più di una filastrocca. Il cielo in una stanza di cui canta Giusy Ferreri ricorda tanto il soffitto di un claustrofobico wc, più che gli alberi infiniti, per quello sforzo continuo a cui sottopone tutti gli sfinteri del suo colon ad ogni gorgheggio.
Dai Modà e da Emma Marrone, però, ci si aspettava una versione più attuale di Here’s to you, toccante ballad di Joan Baez dedicata a Sacco e Vanzetti: imbarazzi con la lingua inglese e arrangiamento pomposo completamente fuori luogo, vista la scarna ma perentoria semplicità del brano originale. Cosa aspettarsi invece da Al Bano? La giacca rosso fuoco comprata nel discount cinese giusto a fianco all’Ariston unita alla straziante esecuzione dell’italianissmo Va’ Pensiero verdiano (mentre i due cantanti lirici greci al suo fianco tentano invano di salvare il salvabile) ricorda un tremendo sincretismo kitsch tra Italia, Cina, Padania e Mondo degli Orrori. Vince il sorvolabile premio della miglior rivisitazione della serata. E per l’appunto, sorvoliamo.
Buone, però, molte altre interpretazioni: il fedele e sentito omaggio di Nathalie a Il mio canto libero, l’appassionata O surdato ‘nnamurato di Vecchioni, l’elegante e suggestiva La notte dell’addio cantata da Luca Madonia con Battiato alla direzione dell’orchestra, lo stile narrativo e folk con cui Davide Van de Sfroos presenta Viva l’Italia di De Gregori. Luca Barbarossa e la spagnola Raquel del Rosario propongono una versione senza fronzoli di Addio mia bella addio, inno risorgimentale cantato con la dolcezza di una ninna nanna. Ma lasciano il segno soprattutto una O Sole mio tra il minimal e il rock proposta da un’Anna Oxa in stato di grazia e l’ironico stile di Patty Pravo in Mille lire al mese. Sorprendente anche lo sprezzo con cui la Oxa sottopone i suoi capelli ad estenuanti episodi di vivisezione -pare interverrà il WWF per la loro tutela-mentre a proteggere la lingua estinta con cui ancora si esprime Patty Pravo sarà lo stesso ONU: è in fondo l’unica lingua umana che non prevede suoni articolati.
Il merito della scelta più interessante va però a Tricarico, che intona assieme a Cutugno la nota L’italiano: attorniati da un coro di italiani di seconda generazione delle più svariate provenienze etniche, ci ricordano che l’identità nazionale si è ora tinta di nuove e affascinanti complessità. Sorprende che dalle scelte musicali sia stata dimenticata Mina: in fondo le sue canzoni inquadrano un’epoca fondamentale della nostra storia che è stata un po’ accantonata.
A concludere le celebrazioni, ci pensano un toccante omaggio a Gianni Bella, colpito da ictus, di cui Gianni Morandi, visibilmente emozionato, interpreta l’ultima fatica scritta insieme con Mogol: la bellissima Rinascimento. Uno dei momenti migliori del festival, conclusa con una comprensibile ovazione in onore dell’artista. Ma soprattutto, quello che tutti aspettavano, manco a dirlo l’unico momento della serata che poco aveva a che vedere con la musica. La lezione di Roberto Benigni che offre una personale esegesi dell’inno di Mameli, ripercorrendo nelle sue parole la storia del risorgimento italiano: chiude cantandolo a cappella, dopo averci donato una nuova consapevolezza sul significato delle sue auliche e un po` buffe parole. Discutibili i presupposti storici ma, come già detto, lo spirito critico in queste serate inevitabilmente affonda. Ed il contagioso entusiasmo di Roberto Benigni, che tra una dichiarazione d’amore al belpaese ed una stoccata alla Lega riesce comunque ad unire tutti, colpisce come sempre dritto al cuore: ovviamente la storia è altra cosa, più sfaccettata e spinosa, ma anche Roberto è Roberto, come Sanremo è Sanremo e l’Italia è l’Italia. Commuove Morandi, commuove Elisabetta Canalis che scivola in uno spiccato accento sardo nell’impeto dell’emozione e confessa di non essersi mai italiana come in questa serata.
Trascurabili le ultime quattro canzoni in gara dei giovani, che chiudono la serata: Fuoco e Cenere di Micaela, potente voce di stampo gospel ma testo che da un brivido di terrore, in cui si tormenta perché “ha paura di non farcela, ma c’è qualcosa in me”. Cos’è? La forza dell’amore. Convince meno Roberto Amadè, una sorta di strano ibrido tra il look di Gianluca Grignani e la voce di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, la sua Come pioggia ha ben poco per distinguersi dalla torbida salamoia del già-sentito. Sono loro due a passare in finale, mentre tornano a casa i Btwins, dietro il cui pseudonimo bimbominkia si celano i rugosi nomi di Eraldo e Giuseppe. Creati per chi sentiva il bisogno di una variante “Beatles” dei Sonohra. Nessuno, a quanto pare. Torna a casa anche Marco Menichini, con la maledizione di un nome troppo simile al più famoso Mengoni: canzone che sembra stata scritta vent’anni fa (ed infatti il ritornello ricorda Ogni volta di Venditti oltre la soglia del lecito), sguardo e look da elfetto dispettoso, se ne va a casa con la sua Tra tegole e cielo. Per quanto riguarda il ripescaggio dei big, il televoto contribuisce a sgretolare, come da tradizione, quel poco di credibilità che la giuria demoscopica cerca di ridare al festival: rientrano in gara Al Bano e Anna Tatangelo, per la gioia di chi ha il gusto dell’orrido. Ne vedremo delle brutte.
La serata si conclude con Morandi che canta a fil di voce l’inno, accompagnato dall’orchestra, quando è ormai già ora di iniziare le celebrazioni per il bicentenario dell’unità, o almeno questa è la sensazione dopo ore e ore di di pescaggi, ripescaggi e pesche miracolose. Stanchi ma italiani, ci dirigiamo al letto con addosso il tricolore, che sembra quasi essersi attaccato addosso al nostro pigiama. L’amica albanese, che almeno gode del dono dell’imparzialità, ci ricorda che è bello, tutto sommato, venire da un paese che porta con sé tanta storia e cultura. Pensiamo ad Anna Oxa che infila due dita nella presa della corrente per asciugarsi i capelli, alla Canalis travestita da Jessica Rabbit, pensiamo a Dante che quando parlava della terra “dove il sì suona” non era stato ancora avvertito che questo “sì” sarebbe stato anche pronunciato da Patty Pravo e Giusy Ferreri. Pensiamo al popolo ebraico torturato da Nabucodonosor che li costringeva ad ascoltare per ore la versione di Albano del Va’ pensiero. Pensiamo a tutto ciò su cui, in fondo, possiamo anche stendere un pietoso tricolore, che ha i colori tenui di Benigni che sussurra nel silenzio l’inno, le tinte variegate dei nuovi italiani alle spalle di Cutugno, l’accecante candore delle parole di Gramsci sull’indifferenza, magistralmente recitate da Luca e Paolo. Pensiamo che, in fondo, la nostra amica albanese non ha tutti i torti. In preda ad un’italica gaiezza, rivisitiamo anche noi Valeria Rossi, cantando nel mezzo della notte: “Dammi tre colori”.