Se cercate qualcosa legato al nuovo movimento rock (Arctic monkeys, Franz Ferdinand, e chi più ne ha più ne metta), o se vorreste cullare i vostri dolori in dolci canzoni d’amore, avete da guardare altrove. Perché qui troverete solo pura e antica elettronica, da quella dei Krafwerk, passando per i Moloko di Statues, fino a quella che accompagnava i videogiochi degli anni ’80.
(“Machine music is good!” affermano). Le melodie orecchiabili sono proprio poche, ma quello che le rende superbe è la bellissima voce della cantante, il cui accento svedese le dona un fascino tutto particolare. Lei è Karin Dreijer Andersson (già interprete di What else is there? dei Royksöpp), mentre l’altro saltuario cantante è suo fratello Olof Dreijer.
Questo duo è nato a Stoccolma nel 1999, anno in cui la loro intraprendenza e il loro essere fuori dalle logiche del mercato li hanno portati a fondare la loro stessa etichetta discografica, la Rabid Records (che sta pubblicando tral’altro Jenny Wilson). Non fanno niente a metà, e non fanno niente due volte. Il compromesso è il loro nemico, la ripetizione è sbagliata.
Il loro cd è molto strumentale, con larghe introduzioni non cantate per la maggior parte delle canzoni, il ché le rende a volte lunghe. Si passa da quelle più lente, con voci gravi e intense, a quelle più ritmate, che ricordano le luci stroboscopiche della discoteca, si viaggia dalle atmosfere cinesi ai cori a capella, ma in ogni caso non si riesce a trattenere il corpo dal muoversi a ritmo.
I testi sono criptici e le voci spesso distorte, computerizzate, sintetizzate; l’album è eclettico, sprizzante di energia, quasi aggressivo ma non arrogante. Sicuramente particolare, egocentrico, sconcertante, surrealista, strano, come lo sono i due fratelli svedesi: a loro piace molto stare nascosti e passare periodi di magnifico isolamento. Adorano i video, perché ritenuti un’estensione della loro musica (il ché li ha portati a girare il cortometraggio When I found the knife), ma odiano fare servizi fotografici perché dicono non centrino niente con la musica, ma quando sono costretti a posare lo fanno travestendosi da quello che secondo loro sarebbero le loro opere se avessero un’immagine definita. Così una volta li ritroviamo ginnasti e la volta dopo corvi con becchi, giacconi e parrucche nere. Infatti descrivono la loro musica occulta e buia ma allo stesso tempo divertente. Ed io non riuscirei a descriverla con parole più appropriate…
I singoli tratti dall’album sono Silent shout e Marble house, le canzoni più belle ma soprattutto più “commerciali”, se così si può dire. Il titolo della prima sta ad indicare il classico incubo in cui vorresti gridare qualcosa, ma non ti esce suono dalla bocca (“Yes in a dream all my teeth fell out / A cracked smile and a silent shout”), mentre la seconda canzone parla di qualcuno che si dedica ad una cosa qualsiasi, solo per avere qualcosa che le faccia passare il tempo. Comunque in generale l’album riguarda il cercare qualcosa per passare il tempo, ma anche per evitare la solitudine.
Dal punto di vista musicale, invece, è basato sull’invenzione di suoni nuovi, sulla scoperta di nuovi sintetizzatori che producano fragilità e sensibilità in modo cangiante durante la loro riproduzione, ma che diano allo stesso tempo l’idea di forza. Insomma, una musica triste, fredda e buia, ma allo stesso tempo dura, suggestiva e bella.
Track list:
Silent shout
Neverland
The Captain
We share our mothers’ health
Na na na
Marble house
Like a pen
From off to on
Forest families
One hit
Still light