Sono seri e rigorosi i Sophia dal vivo. La loro non è una posa, come quella dei tanti imbronciati gruppi indie-rock dall’aria depressa e tormentata.
Lui, Robin Proper-Shepard, il leader della band, è uno che la sofferenza l’ha provata davvero. E si sente. Si sente dalle parole che la sua voce intensa e commossa restituisce alla platea incantata del piccolo club “Sintetika” di Firenze. Un ambiente intimo e raccolto, forse troppo ristretto per accogliere un pubblico sempre più numeroso man mano che la serata procede.
Salgono sul palco intorno alle 23.30 i cinque romantici di San Diego, regalandoci subito due pezzi strappalacrime del passato eseguiti in maniera impeccabile: l’incalzante “I left you” e la malinconica “If only” introducono immediatamente nel clima nostalgico che accompagnerà poi l’ora e mezzo successiva.
Sono soprattutto i brani struggenti di “De Nachten” che coinvolgono gli appassionati: un album che trasuda tutto il tormento e il dolore della perdita, quella di un amico e compagno di vita scomparso improvvisamente. Sophia è infatti un progetto nato (nel ’96) dall’elaborazione del lutto, qualche tempo dopo la tragica dissoluzione dei God Machine in seguito alla morte del bassista.
E se la vera arte nasce dalla sofferenza, i Sophia ne sono la dimostrazione vivente.
Passando attraverso pezzi più sereni e melodici di “People are like Seasons”, come la trascinante ballata “Oh my love”, ci si immerge senza forzature nelle rumorose atmosfere distorte e schitarrate dell’ultimo “Technology Won’t Save Us”, un album potente e maturo che rappresenta fin dal titolo lo spirito romantico e nostalgico di una band che ha fatto della celebrazione dell’amore e della sua perdita un marchio di fabbrica. Sentimenti insomma che la tecnologia non può dare.
E per capirlo basterebbe essere entrati soltanto a fine concerto, quando la band, dopo la trascinante “The River Song”, è rientrata sul palco regalando al pubblico commosso tre chicche del passato come “Ship in the Sand”, “So slow” e l’immancabile concentrato di malinconia di “The Sea”.
La prova, matura e consapevole, che l’arte è il miglior rimedio per esorcizzare il dolore.