Premessa: l’evento massmediale
Veniamo a parlare di questo film quando il fenomeno mediatico, che ne ha fatto un successo planetario, si è placato. A ogni modo una piccola riflessione la merita proprio quel fenomeno, quella precisa strategia di marketing che ha fatto sì che un film sulla passione di Gesù, parlato in lingue antiche e sottotitolato, non prodotto da una major, diventasse, ancor prima di essere distribuito, un caso di cui tutti parlavano, facendo crescere sempre più la curiosità negli spettatori. Quando poi sono avvenute le anteprime, le polemiche dei fronti contrapposti, alimentate ad arte dai giornalisti di tutto il mondo, hanno fatto il resto: in pochi giorni anche chi non s’interessava di cinema, anche chi non andrebbe mai a vedere un film tratto dal vangelo, tanto meno parlato in aramaico, si è sentito in dovere di precipitarsi a comprare un biglietto per partecipare al grande evento. Questo ha fatto la gioia di chi distribuisce la pellicola, e anche del suo autore, non solo perché il film è stato visto, ma anche perché essendone produttore esecutivo, egli riceve l’80% degli incassi.
In altre parole basterebbe tutto questo per fare una riflessione sul potere dei media nella nostra società e sulla tendenza a farci incantare dal battage pubblicitario.
Il presunto realismo
In apparenza la vicenda raccontata è la ricostruzione storica della passione secondo il racconto dei vangeli. Ripetiamo: in apparenza, in quanto la dimensione storica è limitata all’uso delle lingue del tempo (aramaico e latino), mentre il racconto evangelico è assai liberamente stravolto, integrato e interpretato.
Merita insistere su questo punto perché è uno dei luoghi comuni che ha attribuito al film un’aura di realismo assoluto, quasi si trattasse di una cronaca in diretta dal Golgota. Solo per fare qualche esempio, la morte di Giuda perseguitato dai bambini/demonio (fig. 1), il ruolo della moglie di Pilato che va a portare un panno a Maria, la Veronica (fig. 2), l’incontro tra Gesù e Giuda dopo la cattura, l’agonia del ladrone cattivo, la lacrima di Dio, la materializzazione del diavolo sono tutti episodi inventati, che non possono nemmeno dirsi una verosimile illustrazione dei fatti narrati dagli evangelisti, ma sono vere e proprie integrazioni della sceneggiatura. Legittime, per carità: un testo filmico è altra cosa da un testo narrativo; figuriamoci poi quando il libro di partenza è la parola di Dio. Quindi, ben vengano le libere interpretazioni degli autori cinematografici, ma per favore non scambiamole per il vangelo.
Anche l’uso delle lingue antiche risponde più a un’esigenza drammaturgica che filologica. Gibson ha avuto l’intuizione di dare al suo racconto un tono un po’ magico attraverso il ricorso a dei suoni verbali sconosciuti ai più, vagamente esoterici. È un po’ come con la messa in latino che è rimpianta soprattutto da chi il latino non lo sa, grazie al fascino dei rituali in lingue misteriose.
In questo caso, sotto il profilo cinematografico, la scelta risulta efficace in quanto fornisce una certa coerenza stilistica a un film che altrimenti è molto squilibrato, oscillando tra il realismo più crudo (la flagellazione – fig. 3) e il simbolismo più kitsch (il diavolo all’inferno – fig. 4). Non è poi da sottovalutare il vantaggio indiretto di costringere lo spettatore a leggere le didascalie – non moltissime, in verità – prestando quindi più attenzione dei dialoghi che, più o meno, un po’ tutti conoscono sommariamente e quindi tenderebbero a sorvolare. Paradossalmente La Passione di Cristo assomiglia a un film muto, a quei kolossal di Cecil De Mille come Il Re dei Re in cui contano soprattutto i gesti esagerati, alternati ogni tanto a qualche cartello scritto.
Un altro aspetto filmico che va evidentemente in una direzione opposta rispetto al realismo è l’uso reiterato delle riprese rallentate e dei movimenti di macchina acrobatici, con un impatto che è puramente spettacolare, come in un film d’azione o come negli spot pubblicitari. A questo si aggiunga l’uso combinato del sonoro (musica e rumori), che enfatizza ancora di più una storia che è di per sé importante, recitata a volte sopra le righe e sottolineata dal ralenti. Per averne un’idea si prenda il gesto di Gesù che traccia per terra un cerchio al momento della lapidazione della Maddalena (fig. 5), oppure la goccia/lacrima che scende dall’alto dei cieli in soggettiva e si schianta a terra come una bomba (figg. 6, 7).
Dove invece dobbiamo riconoscere un impatto di stampo realistico è nella recitazione di alcuni interpreti e nell’attenzione a dei gesti in apparenza senza importanza. Si veda, per esempio, il modo del tutto umano, quasi un tic nervoso, con cui Giuda si gratta la barba contro una colonna durante il processo (fig. 8), o quando Maria asciuga il sangue di Gesù per terra con l’atteggiamento di una sguattera che pulisce il pavimento (fig. 9). Ecco, in quei momenti si ha un’autentica incarnazione nel vissuto umano, distante sia dalla ieraticità (si veda il trucco del personaggio di Gesù, ricalcato su certe illustrazioni che elaborano graficamente i tratti della Sindone) come dall’enfasi che permea l’insieme.
Apparizioni sataniche
Abbandonata la strada del realismo e della fedeltà ai vangeli (ma, si badi: quasi tutti sono caduti nell’errore di prendere per buoni questi due elementi), Gibson si è mosso facendo ricorso senza remore a tutti gli espedienti cinematografici che gli permettessero di far colpo. Ed ecco allora la figura androgina di satana (una via di mezzo tra il cantante Marilyn Manson e la Morte del Settimo sigillo), cui ha dato fattezze e carisma l’inquietante Rosalinda Celentano, dominare la scena sin dall’inizio, nell’orto del Getsemani, dove va a tentare Gesù. In cielo la luna è, ovviamente, piena; le nubi sono minacciose; tra gli ulivi serpeggia una nebbia mefitica; nel naso di satana striscia un vermetto che si trasformerà in un serpente ai suoi piedi: siamo in pieno film horror, con tutti gli effetti del genere, quasi si trattasse di un episodio della saga di Venerdì 13 o Nightmare.
Non solo: satana tornerà durante il racconto a tentare Giuda sotto forma di un branco di bambini famelici oppure in una specie di parodia materna, con un bambino mostruoso (in realtà un nano) in collo (fig. 10). Durante la via crucis avverrà una sorta di duello muto, fatto di sguardi, tra Maria e il diavolo, quasi a contendersi quel Gesù che arranca sotto la croce: lì si gioca una partita dal cui esito dipendono le sorti dell’umanità (figg. 11, 12). Maria pretende di poter vedere Gesù in faccia, quasi temendo che in quel momento di suprema umiliazione e sofferenza egli possa cedere alla tentazione e non portare a termine il suo compito. Infine dopo la sconfitta dovuta al compimento del sacrificio salvifico del Cristo, Gibson non si perita di mostrarci nientemeno che satana ruggente nella desolazione infuocata dell’inferno, come una belva in gabbia, con tanto di denti aguzzi: perfino un bambino avrebbe avuto più pudore (fig. 4).
Un discorso a parte andrebbe fatto per il corvo che acceca il ladrone bestemmiatore: è anch’esso una materializzazione luciferina? A rigor di logica no, in quanto dovrebbe essere interesse di satana continuare a offendere e, in certo qual modo, tentare Gesù fino in punto di morte. Ma se non è diabolico, quel corvo cos’è, una punizione divina? Di sicuro è una scena a effetto per lo spettatore, che ha un ulteriore momento di raccapriccio dopo la lunghissima e tanto pubblicizzata sequenza della flagellazione (fig. 13).
Quest’ultima è stata per buona parte l’oggetto del contendere tra chi accusa il film di praticare una “pornografia del dolore” e chi invece vi riconosce una volontà di non edulcorare ciò che nei fatti è stata una tortura cruenta. Il rischio in cui incorre Gibson è di aver talmente esasperato la violenza delle frustate da sortire un effetto di apprezzamento nei confronti di Gesù quasi si trattasse di un supereroe, di una specie di Rocky o Rambo che resiste alle prove imposte dagli avversari, di cui si ammira la capacità di sopportazione più che le motivazioni del suo sacrificio.
Mezzo o fine?
Da tutto ciò che stiamo dicendo verrebbe da anticipare un giudizio senza appello per il film, frutto com’è di una strategia commerciale che sfrutta in modo grezzo ciò che c’è di più alto nella storia dell’umanità.
Va fatta a questo punto una precisazione importante: per quanto si tratti di uno spettacolo e non di un’opera d’arte, grossolano e spesso di cattivo gusto, tutto questo però attiene al linguaggio scelto da Gibson e non alla sostanza del discorso. Ora, sappiamo bene che nell’ambito massmediale il mezzo è già il messaggio e che non si può dividere così, con un taglio netto, lo strumento dal fine; ma per onestà si deve sottolineare come in questo caso l’impatto più evidente della pellicola è una sorta di richiamo per le masse, salvo poi accedere a una riflessione più profonda che è anch’essa espressa filmicamente.
Per fare un esempio, è come se ci trovassimo di fronte a uno di quei predicatori che fino a tempi non troppo remoti sbraitavano dal pulpito cercando di impressionare i fedeli sulle pene subite da Gesù, facendo ricorso a un gesticolare esagitato e a un’oratoria infiorettata di similitudini a effetto. Se a noi può sembrare ormai fuori luogo un linguaggio di tal fatta, non necessariamente significa che l’oggetto della predica fosse di per sé sbagliato.
In altre parole Gibson ha scelto un approccio cinematografico – per certi aspetti aberrante – a una materia che, nel profondo, non ne rimane intaccata più di tanto. Vediamo perché.
Il vero senso: la fede della Chiesa
A un’analisi più approfondita scopriamo che il film non ruota tanto intorno alla figura di Gesù, che come personaggio non ha alcuna evoluzione e sta a rappresentare soltanto se stesso. Tanto è vero che se facessimo vedere La Passione a uno spettatore che, per ipotesi, non conoscesse nulla dei vangeli, probabilmente non capirebbe un granché dei fatti raccontati. Coloro che invece sono posti al centro della narrazione, fino a diventarne i veri protagonisti, sono Maria, Maria Maddalena e Giovanni. Essi sono gli unici che restano fedeli fino alla fine, che non abbandonano Gesù né per paura, né per opportunismo, né per scandalo. Tutti gli altri se ne vanno: Giuda, oppresso dalla colpa e posseduto dal demonio; Pietro, che per paura rinnega; Pilato, pur avendo più di un’intuizione della sua innocenza; Barabba, che lo incrocia e lo deride; il cireneo, costretto a condividere il peso della croce, ma costretto anche a ritornare per la sua strada. Si veda a questo proposito il tempismo cinematografico con cui Simone di Cirene esce di campo sul Golgota, mentre entrano in scena i tre che abbiamo detto, gli unici capaci di resistere alla visione scandalosa della morte di Dio (figg. 14, 15).
Perché loro? Perché hanno fede, e credono anche oltre l’evidenza della sconfitta umana. Quello è il piccolo nucleo della chiesa nascente che non si arrende al temporaneo trionfo del male e aspetta la risurrezione. Gesù è per loro colui che ha dato un senso e ha cambiato intimamente le loro vite. Quella di Maria (in assoluto la figura più riuscita), mamma che rivede nella caduta del figlio sotto il peso della croce le preoccupazioni materne di quando Gesù era bambino (figg. 16, 17); Maria Maddalena, la cui vita e la cui anima sono state salvate dall’intervento di quell’uomo così diverso da coloro che la volevano lapidare (fig. 18); Giovanni, che nel corpo slogato e innalzato sulla croce rivede il pane spezzato e innalzato nell’ultima cena (figg. 19, 20, 21).
I flash back dei tre personaggi si riempiono di senso perché danno tutto lo spessore della loro fede, di quella loro capacità di continuare a guardare un sofferente “di fronte al quale ci si copre la faccia”. E il punto culminante di questo percorso lo si ha alla deposizione dalla croce, quando Maria, Maria Maddalena e Giovanni, con Gesù morto sulle ginocchia della madre, formano una specie di scultura vivente, una pietà allargata, e rimangono (soprattutto Maria, il cui sguardo è quasi rivolto all’obiettivo) in attesa di ciò su cui hanno scommesso le loro esistenze (figg. 22, 23).
Ecco perciò che quei due minuti finali in cui assistiamo alla risurrezione di Gesù, il cui corpo ora è splendidamente rinnovato quanto prima era stato martoriato nella passione, sono, strutturalmente, la seconda parte del film, in quanto vengono a dare una risposta alla sospensione carica di speranza con cui si era chiusa la prima parte. La fede ha avuto ragione, ciò che sembrava impossibile è successo, la morte è stata sconfitta, la chiesa ha il suo fondamento sul Risorto (figg. 24, 25).
Tutto questo è detto nel film di Gibson, in seconda istanza, se si va oltre quegli aspetti tanto appariscenti che hanno fatto la gioia dei conduttori di talk show e dei gestori delle sale cinematografiche: il sangue, il presunto antisemitismo, la violenza, il supposto realismo storico. No, il nucleo vero sta qui, in quello sguardo di Maria dopo la deposizione, con accanto la corona di spine e i chiodi (l’evidenza della morte e della sconfitta umana – fig. 26), dopo che anche i centurioni sono stati spruzzati dal lavacro salvifico del costato (il sangue ed acqua che esce da quel corpo a santificare il piccolo resto ai piedi della croce); uno sguardo che sa di sfida a Chi ha fatto una promessa che adesso deve mantenerla. E nei sessanta secondi finali la promessa si avvera.
(t.o.: The Passion of the Christ)
regia: Mel Gibson;
sceneggiatura: Benedict Fitzgerald, Mel Gibson;
direttore della fotografia (colore): Caleb Deschanel;
costumi: Maurizio Millenotti;
interpreti: James Caviezel (Gesù), Maia Morgenstern (Maria), Hristo Jivkov (Giovanni), Francesco De Vito (Pietro), Monica Bellucci (Maria Maddalena), Mattia Sbragia (Caifa), Toni Bertorelli (Anna), Luca Lionello (Giuda), Hristo Naumov Shopov (Ponzio Pilato), Claudia Gerini (Claudia), Fabio Sartor (Abenader), Giacinto Ferro (Giuseppe di Arimatea), Olek Mincer (Nicodemo), Sheila Mikhitari, Lucio Allocca;
prodotto da: Mel Gibson, Bruce Davey, Stephen McEveety;
origine: Usa, 2004;
durata: 127 min.;
formato: 1:2,35