Giornate degli Autori
In una piccola cittadina polacca di provincia vivono Stefek, un ragazzino di sei anni, e la sorella Elka, diciottenne. Il padre ha abbandonato il nido familiare qualche anno prima, e la madre tira avanti come commessa in un negozio. Fratello e sorella cercano di cambiare la realtà con piccoli “trucchetti”, sfidando le cose a cambiare: la ragazza cerca di andare a lavorare con una ditta italiana, e per questo si sforza di imparare la lingua anche quando lavora in un pub, ma è soprattutto il piccolo Stefek a non demordere. Infatti un giorno gli sembra di riconoscere in un uomo d’affari che incontra alla stazione dei treni proprio quel genitore fuggitivo di cui sente la mancanza. Proverà i suoi trucchi migliori per riavvicinarlo alla famiglia.
Andrzej Jakimowski è un regista polacco dell’ultima (anche se non ultimissima) generazione, quella dei promettenti quarantenni o poco più che vede fra gli altri gli interessanti Dariusz Gajewski, Robert Glinski e Piotr Trzaskalski, ed il suo debutto nel lungometraggio aveva attirato moltissima attenzione (forse troppa) non solo fra i critici e gli studiosi di cinema del suo paese, ma anche in vari festival internazionali, dai quali era tornato carico di premi: si tratta dell’intimista Zmruz oczy (qualcosa come “socchiudi gli occhi”) che costituiva di certo un esordio da seguire, ma che chi scrive queste righe non aveva trovato propriamente entusiasmante. Lì la storia di una bambina fuggitiva riportata alla ragione da un saggio e disincantato Zbigniew Zamachowski (il protagonista di Film bianco) faceva comunque sperare nella nascita di una nuova voce personale nel ricco panorama degli schermi di Varsavia e dintorni. Questo Sztuczki (con questa parola si intendono i trucchetti, i giochetti fantasiosi con le cose e le persone che i protagonisti inventano per imbrogliare il destino) rappresenta una conferma ed anche un passo in avanti.
Senza appiattirsi sugli schemi del film “per bambini”, il secondo lavoro del polacco presenta un curioso e coinvolgente spaccato familiare incompiuto, una “famiglia a metà” che esige la ricomposizione e mette in moto un movimento centripeto di ritrovamento e rinascita umana. I due figli abbandonati si convincono infatti che bisogna agire: la ragazza cerca in modo goffissimo e impacciato di farsi assumere da una ditta italiana, ma è il fratellino minore a dimostrare ancora maggiore coraggio prendendo il fato “per la collottola”, ed indagando le possibilità di costringerlo ad un nuovo, migliore ordine di cose. Mentre Elka persegue la fuga dalla sonnacchiosa provincia (ma Jakimowski non calca mai la mano, non siamo di fronte a superficiali denunce sociali o a panorami sconsolanti), Stefek prova al contrario ad instaurare un nuovo rapporto con le proprie radici, con il luogo senza infamia e senza lode in cui è nato, e ancor più con la famiglia che la sorte gli ha assegnato.
La narrazione è, per così dire, gentile, filtrata dalle esperienze e dal cervello del bambino più che dai suoi occhi; il destino e la volontà ferrea del piccolo non sono giustapposti meccanicamente, in quanto il regista studia e raffigura gradualmente i trucchi, i sotterfugi, in ultima analisi, gli “atti di volontà” che il singolo può intraprendere per rimediare agli sbagli compiuti (da altri) nel passato. Questo Sztuczki per fortuna non si avvicina neanche per caso alla storia strappalacrime o al pamphlet di denuncia familiare, i toni sono pacati, la vicenda si snoda con naturalezza grazie ad una sceneggiatura curiosa e gradualmente sempre più densa che si muove su più binari: i tentativi falliti della ragazza di avere successo ai colloqui di lavoro, il corrucciato vagabondare di Stefek che si industria per costringere il probabile padre ad accorgersi di lui, la deriva quasi compiaciuta di quest’ultimo che perde fisicamente il treno (una situazione che ci ha ricordato, e crediamo non casualmente, Destino cieco di Kieslowski), ma forse potrà salire su quello più importante di una esistenza interrotta tempo addietro.
Jakimowski conferma di avere uno sguardo tenero ma non remissivo sulla realtà della sua Polonia, di non forzare la mano con sceneggiature troppo perfettine (di cui lui stesso è autore), ma di saper invece combinare il dettaglio fantasioso con lo sguardo realistico e di saper creare testi leggeri, eppure non effimeri. Più di un semplice film da Giffoni film festival, forse ancora non un vero e proprio film “d’autore” (nonostante la sezione in cui è stato inserito), ma di certo una buona prova di quel cinema della medietas degli affetti e della rappresentazione, intesa come complimento e come promessa di prove ancora più convincenti.
anno 2007 durata 95′ 35 mm colore paese Polonia
regia di Andrzej Jakimowski
Sceneggiatura Andrzej Jakimowski
Cast Damian Ul (Stefek), Ewelina Walendziak (Elka), Rafał Gużniczak (Jerzy), Tomasz Sapryk (il padre)
Fotografia Adam Bajerski
Produzione Zjednoczenie Artystów i Rzemieślników Sp. z o.o.
Co-produttori Wytwórnia Filmów Dokumentalnych i Fabularnych, Telewizja Polska S.A., Canal+ Cyfrowy, Opus Film