THE CURE

INCUBI DAL PASSATO IN CHIAVE MODERNA

Si apre un nuovo capitolo artistico per la band dark rock piu’ popolare di sempre. E a ringiovanire il sound oramai autoindulgente degli ultimi lavori, c’e’ il tocco di Ross Robinson.

– La ragione per cui ho chiamato il disco “The Cure” è perché secondo me riflette molto bene tutte le cose che personalmente amo dei Cure. Ogni canzone contiene dei riferimenti a cose che abbiamo fatto in passato -. A parlare è il leader della band Robert Smith, che oggi, nonostante l’aspetto buffamente sciupato della capigliatura corvina, conserva ancora sorprendentemente la voglia di mettersi in gioco e la voce da ventenne.
E nelle sue parole si può riscontrare un fondo di verità. Ascoltando questo ultimo omonimo album (il tredicesimo in studio), sembra di rivivere attraverso alcuni arrangiamenti,e sonorità, momenti del percorso artistico del gruppo; come avere tanti piccoli deja vu che si manifestano brano dopo brano. Con ciò non voglio dire che suoni uguale ai precedenti o che riassuma la loro stralunata carriera; sembra piuttosto attingere da atmosfere, spunti e schizzi sonori del passato, che sono stati abilmente riprodotti e centrifugati da Ross Robinson(artefice del successo di nu-metallari tra i quali Korn e Slipknot)che comunque non ha trasfigurarto l’arte e l’essenza del gruppo.
Iniziando da “Lost” si ha la lieve sensazione di ritrovarsi per un attimo ai tempi d’oro di “Pornography”(’82), quando Robert vomitava le sue ansie e urlava al vento e a se stesso la sua disperazione. Si percepisce lo stesso smarrimento, la medesima fragilità emotiva nelle parole e nella voce che ripetono all’infinito: – I can’t find myself – ,e accompagnano una base ipnotica e ossessiva, accarezzata da una trama sottile e dissonante di chitarra. Si prosegue sulla stessa onda con “Labirinth”, uno dei pezzi piu’ interessanti, se non il più bello dell’ album. Ricorda vagamente la traccia omonima di “Bloodflowers”(2000), e con l’incedere delle percussioni, avanza con una ritmica tribale in un crescendo di tensione, che va ad esplodere nel finale apocalittico, frastagliato da intrecci chitarristici convulsi.
Si respira un’aria più positiva in “Before three”,e subito dopo irrompe “The end of the world” , primo singolo estratto; che malgrado non sia una delle loro hits radiofoniche più riuscite, è dotata di un chorus gradevole e difficile da dimenticare, con versi sottolineati dalle linee di basso di Simon Gallup. Al contrario, discrete ma totalmente prive di verve “(I don’t know what’s going)on” e “Alt.end”. Decisamente migliore la gioiosa “Taking off” nonostante possa risultare tanto piacevole quanto stucchevole; sembrerebbe un auto-plagio o in alternativa un voluto omaggio a “Just like heaven”, famoso pezzo che consacrò il loro successo planetario.
In brani come “Us or them” e “Never”, emerge invece una vena quasi “Nirvaniana” caratterizzata da riff duri e distorti, e versi che si ripetono a livello straziante.
Ma se alcune tracce si discostano un po’troppo dalla personalità del gruppo, e altre al contrario, non brillano di originalita’;nel mezzo c’e’ ancora spazio per le suggestioni visive, quando plana dolcemente “Anniversary”: -A year ago tonight we lay below this same remembering sky…I kissed you – che attraverso un delicato tappeto sonoro, sembra estendersi nello spazio e librarsi nel vuoto oscurando l’atmosfera come un’ ombra.
Si chiude questo album con la psichedelia di “The promise”; tesa e sospesa ma allo stesso tempo fragorosa e intrisa di frasi chitarristiche possedute, che ricordano tanto il delirio di “The Kiss” da “Kiss me Kiss me Kiss me” (’87), con un Robert aggressivo in preda a una nevrosi.
In finale c’è forse da rimpiangere la poesia di cui le liriche di Smith erano pregne, e il sound spontaneo e pittoresco che ha sempre caratterizzato lo stile Curiano. Quella tipica atmosfera trasognata e casuale e quella voce nostalgica verso un qualcosa di perduto, sembrano essersi dissolte per far posto ad una base sonora massiccia, compatta e ovattata a sostegno di una voce decisa e potente, che talvolta però finisce per strafare, e che alla lunga stanca.
Tutto sommato “The Cure” resta comunque il ritorno discografico di una band con 25 anni di attività alle spalle,fatto di pregi e difetti; ma perfetto per rivivere emozioni dal passato in una dimensone tutta nuova.