“TRILOBITI” DI Breece DJ Pancake

Un talento di sangue e praterie, spezzato dall’inquietudine.

Breece Pancake, con quel D’J calato nel mezzo, a dividere l’oggi da un futuro mai nato, ci ha lasciato un solo libro, questo. Facile, forse, intuirne il perché: “[…] contiene così tanta conoscenza, esplora il suo soggetto così bene e su così tanti livelli […] deve avere invecchiato Pancake come scrittore, deve avergli fatto sentire che aveva utilizzato tutto ciò che sapeva”.

Pancake verrà ricordato per questa sua straziante opera prima anche per un altro, fondamentale, macabro motivo: muore, infatti, suicida, a ventisei anni, nel 1979. Solo quattro anni dopo l’America si accorgerà di lui pubblicando “Trilobiti”, amato da tutti, subito, senza remore, tanto da far paragonare l’autore (a torto o a ragione, ai lettori l’ardua sentenza) al grande vecchio Hemingway.

“Trilobiti” è un libro strano. Strano perché sembra figlio del silenzio, della polvere, della caligine estiva, delle grandi pianure americane fatte di sudore, scommesse clandestine, pugni e fattorie. Strano perché accomuna in sé la disperazione raccolta nelle migliori pagine beat, quando Kerouac sgranava il suo paese su un rotolo di carta igienica, in lungo e in largo, senza soldi in tasca e un gran fermento dentro, la solitudine di John Fante, quel modo disincantato di guardare al mondo, dopo i più strambi tentativi di farcela, e una filosofia di vita intinta nel nichilismo più puro.

Senza speranze sono i protagonisti di questi dodici, brevi racconti, senza speranze e senza sorrisi, senza possibilità, vie di fuga, intrappolati in esistenze dove la gioia è una chimera irraggiungibile, o qualcosa di irrimediabilmente perso, per sempre, in cui l’immobilità sentimentale finisce per prevaricare qualunque voglia di cambiare. Sono ex pugili, camionisti, giovani orfani a metà, minatori, marinai, fattori, pensionati, meccanici: dentro le loro vite Pancake si infila di soppiatto, senza farsi notare, senza disturbare, fotografando la miseria quotidiana, la povertà di scelte, il desiderio, mai sopito, di riscatto, l’ineluttabile ripetersi dei giorni, quelli dal sapore metallico, delle albe sempre uguali, dei tramonti sempre tristi, i pensieri macchiati di noia, i ricordi di ciò che sarebbe potuto essere “se, solo se”. E sa raccontarli con semplicità di parola, utilizzando una scrittura immediatamente comprensibile, a tratti perfino “semplicistica”, a tratti cruda (come nelle scene di caccia, in cui il vapore del cadavere caldo, immerso nella neve, è qualcosa di più di semplici vocaboli), estremamente vivida, per rendere tutta l’inclemenza e la malignità di una vita che non perdona chi non ce l’ha fatta.

“Trilobiti” procede lento e regolare, come una giornata, una settimana, un mese, un anno, dove i grandi dolori abbiano lasciato il posto ad un piccolo dolore, un grumo di rabbia e rassegnazione che ci accompagni sempre; andrebbe riletto, più e più volte, per cogliere tutte le increspature, le venature di una scrittura che non si svilupperà mai, che rimarrà sempre un bozzolo di possibilità inespresse, ma che, nella sua autenticità, nella sua vicinanza alla vita vera, riesce comunque ad emozionare, a farsi amare.
Pancake è morto giovane, ma forse è vero che nella sua tristezza, nella sua conoscenza diretta del “lato peggiore”, quei pochi anni pesarono molto più che se fossero stati cento. Non sempre, purtroppo, la saggezza si rivela un dono.

Breece D’J Pancake,Trilobiti,Isbn
traduzione di Ivan Tassi,pp. 192
13 euro