L’unico scopo del ladruncolo di mezza tacca Tae-gu è quello di fare più soldi possibile coi suoi traffici. Quando, dopo l’assalto a un treno che trasporta importanti esponenti dell’esercito giapponese stanziato in Manciuria, siamo negli anni ’30, Tae-gu si ritrova fra le mani una strana mappa a cui tutti sembrano dare la caccia, a partire dal killer spietato e dandy Chang-yi e dal silenzioso e letale cacciatore di taglie Do-won, il mariuolo si convince che sia la leggendaria mappa che porta al tesoro della dinastia Qing.
Tae-gu, dovendosi difendere dagli attacchi sferrati da più fronti per sottrargli la mappa, si allea momentaneamente con Do-won. Tra una sparatoria bagnata al mercato nero, caratterizzata dal peculiare uso di un casco da palombaro, e un infinito inseguimento nel deserto ghiaioso della Manciuria, che vede coinvolti anche l’esercito giapponese e il fronte di liberazione coreano, l’unica conclusione possibile è il più classico dei Mexican standoff tra il buono (Do-won), il cattivo (Chang-yi) e lo strano (Tae-gu).
In fase di presentazione, tra il serio e il faceto, lo stesso regista coreano Kim Jee-woon ha definito il suo omaggio allo spaghetti western e a Sergio Leone in particolare (di cui si celebra proprio in questi giorni il ventesimo anniversario dalla prematura scomparsa) kimchi western (il kimchi è un tipico piatto piccante coreano). La fantasia, quindi, non può che volare velocemente dalle parti del giapponese Miike Takashi e del suo Sukiyaki Western Django, personale omaggio in salsa nipponica alla tradizione del western all’italiana (nel caso di Miike, in particolare, l’omaggio era rivolto al Django di Sergio Corbucci). I progetti dei due registi orientali sono assolutamente sovrapponibili; rimane, tuttavia, la sensazione che il precursore giapponese sia stato in grado di instillare nel suo esperimento genetico un tocco personale più evidente.
Kim Jee-woon, d’altra parte, decide di non sfruttare i classici temi western per concentrarsi maggiormente sulla messa in scena. La sceneggiatura del film, infatti, sembra quasi un pretesto, la miccia necessaria a far scattare l’azione continua e convulsa che caratterizza la pellicola, a partire dagli incredibili primi quindici minuti. Le due ore e dieci della pellcola sono un continuo alternarsi fra rari momenti di stati e convulsa e ritmata azione, che si cumula progressivamente fino al finale, crasi perfetta fra pausa e movimento. L’autore sudcoreano nel corso della sua carriera è stato in grado di produrre una filmografia completa, che svaria nei generi più diversi, dimostrando sempre un grande eclettismo. Che si tratti di horror (Two Sisters) o noir (Bittersweet Life), Kim ha sempre lasciato un segno evidente su ogni suo film. La sua incursione nel western non modifica il giudizio, semmai lo rinforza. Ma esulando dalla contestualità della storia del regista e analizzando singolarmente quest’ultimo lavoro, è inevitabile notare come qualcosa non funzioni. Nonostante l’imponente macchina produttiva messa in moto, nonostante l’impeccabile risultato ottenuto a livello tecnico, nonostante l’impiego di tre fantastici attori (Lee Byung-heon, Jung Woosung, Song Kang-ho) la sensazione che l’esperimento non sia pienamente riuscito permane. Nonostante ciò, l’ultimo lavoro di kim riesce nell’intento di intrattenere in maniera ironica per più di ore, risultato tutt’altro che disprezzabile.
Regia:
KIM Jee-won
Anno:
2008
Durata:
130′
Stato:
Korea