“The West Wing” – Sesta stagione

Un'esile speranza (6x02); La missione di pace (6x03)

Uno dei grandi meriti di The West Wing è stato quello di aver adattato con grande sapienza le esigenze narrative e – a suo modo – spettacolari, raccontando il mondo che circonda lo spettatore, alternando riflessioni e risvolti di politica interna ed estera e facendo, di solito, della prima lo scheletro di ogni episodio e della seconda la struttura per le storyline, seppur con qualche eccezione.

Quasi a perfetto compimento, a dimostrazione di una straordinaria capacità comunicativa, arrivano questi due episodi in cui la difficile pace tra Israele e Palestina diventa sfondo perfetto per raccontare il difficile rapporto del congresso con la politica estera, ma soprattutto per descrivere l’arrivederci di uno dei personaggi più amati.
A Camp David, le trattative di pace tra il premier israeliano e il presidente palestinese sono a un punto morto, visto che nessuno vuole cedere all’altro una parte di Gerusalemme, ma mentre il presidente Bartlett continua a insistere per una possibile vicinanza, Leo non è d’accordo, tanto che i rapporti con Bartlett, s’incrinano pesantemente.
Intanto, le varie correnti hanno tutte una loro richiesta, per appoggiare la missione di pace.

Dopo la tensione vibrante, ma “compresa nel prezzo”, della première stagionale, questi due successivi episodi – scritti da John Wells e Eli Attias e diretti da Alex Graves e Christopher Misiano – conferma la straordinaria tenuta della serie e il suo rilancio, dopo l’assestamento non sempre brillante di quella precedente, e la prova la dà il rilancio di una formula solida e per nulla consunta che prevede il frenetico affiancamento di due o tre linee narrative, nei quali scarti narrativi e di registro (torna la vena ironica di Lyman) si nasconde la capacità riflessiva dello show: che in questi episodi, allarga il suo discorso sul conflitto medio-orientale raccontando le realtà e le prospettive dei due diversi contendenti, ma usando un tono limpido e coerente col progressismo di fondo nel raccontare un popolo israeliano che usa la Palestina come psicologica rivalsa storica e un popolo palestinese incapace di ascoltare storie e proposte di dissenso.

Nonostante la necessaria equidistanza, nel tratteggio dei personaggi e nelle riflessioni storico-politiche, si avverte la voglia di ridimensionare l’incondizionato appoggio a Israele (il cui atteggiamento militarista sarebbe causa della risposta terroristica), per spostarsi poi ad analizzare il modo infantile e ottuso, ma in fondo giustificato e comprensibile, che il paese ha nei confronti dell’imperialismo americano e sul bisogno, quasi infantile, di cure e attenzioni particolari.

Così, lo staff presidenziale, diventa definitivamente il microcosmo di una nazione e dei suoi rapporti con l’esterno, nel quale i conflitti e le divergenze si esplicano e diventano lezione di politica, ma soprattutto di racconto.
E anche di messinscena, a giudicare la finezza con cui i rimandi interni delle differenti tracce si legano, e come la linea di Leo, dalle dimissioni all’infarto, diventi filo conduttore di un passaggio epocale per la serie, produttivamente e narrativamente, resa con il consueto pathos, ma senza patetiche lungaggini; inoltre la regia, nel raccontare con rispetto le culture di due popoli (il montaggio dei riti religiosi che si fondono) come nel magnifico episodio Isacco e Ismaele della terza stagione, gioca con gli elementi caratteristici del linguaggio televisivo, come l’alleggerimento ironico (gli scambi tra C.J. e Lyman sul cibo) o l’uso del suspense (il nome del successore di Leo), su materiale narrativo che, all’apparenza è tutt’altro che televisivo, e che Wells e soci rendono invece scintillante.

Come la prova di John Spencer, che per il suo commiato si concede il lusso di una scena madre nei boschi. Si spera solo che, questo personaggio così bello amato, saprà qua e là, farci godere di nuovo della sua presenza.