“The West Wing” – Sesta stagione

I primi passi (6x04), Risorse al limite (6x05), L’attentato (6x06), La bandiera della discordia (6x07)

L’importanza dei comprimari

Caratteristica di molta serialità moderna e contemporanea sta nel dosare le storyline generali di una stagione, o di un’intera serie, per creare dei mini archi narrativi, che possono cambiare con l’andamento delle puntate sia per cessate esigenze narrative o produttive, sia perché il riscontro del pubblico va in un’altra direzione; o magari per confermarli e farne il vero blocco di un ciclo.

In questo quartetto di episodi, Wells e soci cominciano appunto – dopo aver dato lo scossone iniziale alla stagione, in diretta prosecuzione della precedente – a delineare le storie che potrebbero segnare la stagione, sia per quanto riguarda il progetto generale, di solito in politica estera, sia le linee psicologiche dei personaggi, che combaciano spesso con la politica interna.

Così, mentre assistiamo ai primi giorni di C.J. come capo dello staff presidenziale e di Toby come addetto stampa, spunta fuori un importante personaggio come Matt Santos e torna il vice-presidente, con un libro sui suoi scheletri nell’armadio in cui cita più del dovuto Josh; e mentre Leo cerca un modo per tornare in sella, la Cina si offende perché il presidente ha accettato come regalo una bandiera indipendentista; ma per inaspettati motivi.

In questi episodi che descrivono l’iniziale andamento della stagione, scritti da Debora Cohn, Peter Noah, Carol Flint, Josh Singer e John Sacret Young e diretti da Alex Graves, Julie Hebert, Laura Innes e Chris Misiano, la serie si concentra sui personaggi e sui rapporti tra di loro, mettendo in evidenza – secondo la teoria del dietro le quinte della comunicazione moderna – quello che le parole, le dichiarazioni, le frenesie della politica americana devono necessariamente metter da parte; e in tutto questo mette sul tavolo molti temi di stretta attualità come le risorse energetiche alternative, la sanità pubblica, il rapporto dell’America con le altre potenze e i loro problemi interni.
E le due cose, sapientemente, sanno sposarsi, raccontando i personaggi attraverso i valori delle varie Americhe.
Soprattutto in questi episodi, Wells e i suoi autori sanno valorizzare due personaggi minori all’interno della Casa Bianca come Margaret (l’assistente di Leo, ora di C.J.) e Charlie (assistente del presidente e anch’egli alla “corte” del nuovo capo di gabinetto) e farne lo specchio attraverso cui riflettere i malesseri e le soddisfazioni dei personaggi, dando loro però uno spessore notevole: ed è ovvio che lo splendore narrativo, che si piega un po’ nel terzo e quarto episodio, crescono e ritrovano la tensione e la suspense nata dal nulla, dalle piccole deviazione del protocollo, ma anche dal pathos delle narrazioni (ritorna lo spettro della sclerosi multipla).

E quindi, il linguaggio e lo stile si adeguano, in una sorta di crescendo che, da un certa “piattezza” di transizione, dove sia gli sviluppi che la regia restano sui temi e non si evolvono, si arriva, nel settimo episodio, a quella forza, a quel vigore visivo (il fiammifero tra le forchette), morale ed emotiva che sa usare tutti i mezzi del linguaggio cine-televisivo, non ultima la musica, con l’apparizione speciale di James Taylor, nel bellissimo finale. Martin Sheen si vede abbastanza poco, giusto il tempo di lasciare lo spazio a Allison Jeanney, a Bradley Whitford e al sottovalutato Richard Schiff. Per non parlare dei già citati comprimari, forza tanto di uno staff politico, quanto di una serie tv.