All’inizio, il lungo sguardo consumato di una donna si alterna al veloce movimento di un’altra, più giovane, che attraversa gli spazi di un aeroporto fino ad arrivare al punto di convergenza: l’incontro.
Juliette (Kristin Scott Thomas) ha vissuto gli ultimi quindici anni in carcere, sola e rifiutata dalla famiglia. Scontata la pena è accolta da Léa, sua sorella minore (Elsa Zylberstein), che la ospita a Nancy dove vive col marito, il suocero e le sue due bambine.
Un esecrabile delitto è all’origine di tutto: l’uccisione senza ragione del proprio figlio, un bambino di otto anni. E a fine pena la colpevole continua a dover fare i conti con la sua colpa.
Philippe Claudel, romanziere di successo (Le anime grigie, Il rapporto) firma il suo primo film: un soggetto che nasce per il cinema, in cui l’autoreferenzialità è nei molti libri inquadrati, citati e letti dai protagonisti, nutrimento alternativo ad una difficile comunicazione verbale.
Con una scrittura per immagini, che osa nell’abbondanza di silenzi, e con una struttura narrativa che procede per pennellate successive, la storia prende forma a piccoli passi e le verità diventano evidenti non prima di aver lasciato spazi di supposizione allo spettatore.
Juliette e Léa, hanno lo stesso sangue ma destini diversi: se per la prima è evidente il dolore, nella seconda il dolore è nascosto nell’evidenza di una normalità borghese di provincia, fatta di università, bella casa, relazione di coppia e maternità felice, anche se non biologica.
Claudel mette in scena la sofferenza e i sensi di colpa di Léa, a cui la famiglia ha imposto per anni di dimenticare la sorella omicida, e la morte dell’anima di Juliette, per anni chiusa e abbandonata tra le mura di un carcere.
Léa, sente di dover proteggere col silenzio il passato della sorella e così facendo le prolunga la pena.
I tentativi di avvicinamento sono cauti, leggeri e pazienti, ma il rifiuto le pesa sul cuore e la sofferenza e la frustrazione trovano sfogo all’interno di un rapporto coniugale non così armonioso.
Attorno al nucleo delle due sorelle si muove una varia umanità, imperfetta, accogliente e generosa.
Il tema portante del film, dice il regista, è l’infermità, declinata in tutte le sue accezioni: lo è nella prigione fisica e psicologica di Juliette, nella negazione che Léa fa al suo corpo rifiutando a priori la procreazione, nella malattia che ha reso il suocero muto, nell’Alzheimer della madre e lo sono anche la resistenza di Luc (marito di Léa) ad accettare la presenza della cognata omicida, le verità nascoste di Laurent, l’amico di famiglia, e la mortale solitudine del capitano Fauré.
Ognuno rappresenta una sfumatura della stessa patologia. Tutti, tranne uno, troveranno una soluzione positiva ai loro affanni; a partire dalla ritrovata coppia di Juliette e Léa, che partendo da una memoria condivisa ritrovano la traccia del profondo legame che le unisce.
“E’ da molto che ti amo”, titolo francese, è una constatazione che incomprensibilmente nell’edizione italiana si trasforma in promessa con “Ti amerò per sempre”.
Per Philippe Claudel, se la famiglia genera la malattia, può anche generare la cura.
Un dramma dal passo lieve, con una regia sobria che lascia ampio spazio al lavoro dell’attore. La macchina da presa segue e sottolinea con dinamica diversa le caratteristiche delle due protagoniste, il loro cambiamento: la riconquistata forza di Juliette, intensa e reticente, e la raggiunta maturità di Léa.
Per la sua intensa interpretazione Kristin Scott Thomas, cangiante nei silenzi e per nulla glamour, si è aggiudicata l’European Film Awards 2008 come migliore attrice protagonista.
(Il y a longtemps que je t’aime)
Regia di Philippe Claudel
Con Kristin Scott Thomas, Elsa Zylberstein, Laurent Grevil, Serge Hazanavicius
Genere Drammatico
Produzione Francia, 2007.
Durata 110 minuti circa.
Uscita: 30 gennaio (cinema)