Emergono da un drappo bianco i leoni dorati della Mostra del Cinema, ansiosi di lasciare il vecchio edificio per lanciarsi verso il nuovo Palazzo del Cinema di cui è stata posta la prima pietra e che sarà terminato il 2011 in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Che Festival è stato questo della 65° edizione della rassegna veneziana? Vi sono alcuni punti fermi su cui si concorda unanimamente. Il primo è sulla qualità complessiva della rassegna, giudicabile di buon livello senza però nessuna vera rivelazione e neppure il tanto atteso capolavoro assoluto. Non si può non tenere conto, a questo proposito, delle enormi difficoltà incontrate dagli organizzatori a partire dal riconfermato direttore Marco Mueller. Innanzitutto è risultata fortemente compromessa la presenza di film Usa, orfani delle spettacolari produzioni delle major penalizzate pesantemente dallo sciopero degli sceneggiatori che non ha consentito la presenza di opere di largo respiro già promesse a Venezia.
Vi è però da precisare che, se da un lato è risultata penalizzata la spettacolarizzazione, dall’altro si è dato ampio spazio alle produzioni indipendenti sinonimo ormai di cinema più intellettuale e colto anche se, in verità, spesso molto noioso. Non è certo il caso del film dalla Bigelow The Hurt Locker (titolo ambiguo che significa dolore concentrato, termine con cui si designa la scatoletta del detonatore) girato in Iraq sul fronte di guerra, film notevole per lucidità ideologica e capacità di mostrare in modo oggettivo come la guerra sia capace di trasformare gli uomini in robot, facendone dei drogati della guerra, divenuta per i più fragili un’esigenza, di fronte alla loro incapacità di reinserimento nella normale vita familiare e sociale.
Interessante e ben diretto anche Vegas. Based on a true story di Amir Naderi regista naturalizzato americano che ha potuto gettare uno sguardo obiettivo sulla desolazione ambientale e umana di certe periferie Usa. Altra grossa difficoltà nel procacciarsi i film più prestigiosi è nata dalla spietata concorrenza che la mostra veneziana incontra non solo sul piano internazionale con il rivale di sempre, cioè Cannes, ma anche con il sempre più agguerrito Festival di Toronto, prediletto non solo da attori e registi ma dai fondamentali distributori, coloro cioè che si assumono il rischio di fare circolare le opere nelle sale. A questo proposito è triste osservare che del centinaio e più dei film proiettati a Venezia, solo una scarsa decina ha trovato un distributore.
Ha fatto sensazione che anche il grande Kitano, già vincitore a Venezia del Leone d’oro, sia rimasto fra gli esclusi. Non si vedrà quindi nelle sale italiane il suo Achille e la tartaruga, opera surreale di taglio tragicomico sulle frustrazioni di un artista che si illude caparbiamente di avere talento e a questa sua ossessione di pittore senza fama e senza acquirenti finisce con il sacrificare la propria vita e quella della sua famiglia.
Comunque nonostante queste contrarietà e la crisi economica con cui anche il Festival deve fare i conti, Mueller è riuscito a raccogliere significativi prototipi delle varie cinematografie con una spiccata propensione per i film asiatici che sente a sé più congeniali. Non si spiegano, invece, alcune presenze nella categoria dei film in concorso: ci si è chiesti, senza trovare una risposta soddisfacente per quali oscure ragioni siano approdati in questa categoria film come Inju, la bestia nell’ombra di Barbet Schroeder, polpettone intriso di violenza e sadismo sfocianti spesso nel ridicolo, oppure Nuit de chien di Werner Schroeter, incomprensibile miscuglio di violenze e volgarità gratuite inserite in una storia incomprensibile e assurda.
Forse è destino che ogni Festival abbia film che lasciano perplessi sulla loro presenza. Alla ricerca di un filo rosso che accomuni le tematiche di questa edizione, si scopre che questi fili sono numerosi e spesso si intersecano. Numerosissimi film hanno come traccia base la crisi della famiglia. A partire dal film d’esordio presentato fuori concorso Burn after reading dei fratelli Coen, dove tradimenti, divorzi, intrighi coniugali rappresentano la molla degli eventi; Nowhere man di Patrice Toje, ove il protagonista per sottrarsi alla monotona routine familiare, finge un suicidio e si rifugia in un’isola semiselvaggia. In The burning plain la relazione clandestina di una madre spinge la figlia adolescente ad un duplice delitto, mentre nel film di Ozpetek la follia amorosa di un marito violento e disturbato precipita nella tragedia in un finale di tragedia euripidea capovolta, in cui cioè è il moderno Giasone a sacrificare i figli per punire Medea, la brava Isabella Ferrari, colpevole di non volere tornare da lui.
Nell’applaudito film di Pupi Avati Il papà di Giovanna, è la crisi per il confronto impietoso che una figlia adolescente fa fra la propria sgradevolezza e insicurezza con la bellezza di una madre ancora giovane ad ammirata a spingere la prima al delitto, in una Bologna anni Trenta magnificamente ricostruita e fotografata. Gran parte del successo si deve all’ottima interpretazione di Silvio Orlando, giustamente premiato con la Coppa Volpi. Si potrebbe continuare con Vegas. Basato su una storia vera di Amir Naderi, ambientata in una desolata periferia della città del gioco Las Vegas. A portare al disfacimento fisico e metaforico di un minuscolo nucleo familiare è ,in questo caso, la febbre dei soldi, l’ansia di fare il colpo grasso per uscire da una vita misera e senza speranza.
Altro filo comune su cui si concorda, è la caratterizzazione al femminile del Festival: come interpreti da protagoniste o comprimarie, sia come registe e in alcuni casi come produttrici, (vedi Charlize Teron che si è auto prodotta The burning plain da lei interpretato) le donne si sono imposte come anima vitale della Mostra dando spessore e rilevanza ai film interpretati (la splendida prova di Isabella Ferrari, in Un giorno perfettto o l’altrettanto brava attrice francese Dominique Blanc capace di dare dignità ad un film come L’autre di Patrick Bernard storia di un’ossessione amorosa che proprio dalla splendida interpretazione della Blanc trae la sua forza). Alla Blanc è andata infatti la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Agnes Varda chiamata la “Gran Madre della Nouvelle Vague”, con il suo Les plages d’Agnes e le simpatiche e tremende vecchiette del film di De Gregorio in Pranzo di Ferragosto introducono al festival la categoria degli ultraottantenni, dimostrando come anche la quarta età abbia ancora dello slancio vitale se a sollecitarlo è l’interessamento degli altri e un ritrovato spirito di libertà, dignità, tolleranza per lo più assenti nei grandi ospizi che le ospitano (al film di De Gregorio è andato il Premio Mastroianni per la migliore opera prima).
Donne protagoniste sullo schermo e dietro la macchina da presa, quindi firma 35 ruhms Claire Denis abile nel raccontare in modo perfetto e lineare la storia profonda e commovente focalizzata sul forte vincolo affettivo che lega un padre alla figlia, fulcro attorno al quale si dipana la vita di una comunità di immigrati integrati e con un buon lavoro, ma ancora emarginati in una Parigi rappresentata intenzionalmente senza alcun nativo neppure nello sfondo delle scene, assenza emblematica di un razzismo sotteso anche se non esplicitato.
E’ ancora di una donna l’unico film sulla guerra ripreso al fronte dal vivo, in Iraq: The hurt locker di Kathrin Bigelow capace di guardare con occhio e sensibilità femminile alla violenza nel mondo contemporaneo. Merita una citazione il corto di Natalie Portman Eve, spiritoso esilarante racconto di una visita a sorpresa fatta dalla giovane nipote alla nonna ottantenne, visita che interrompe un incontro galante della vispa nona con un altrettanto arzillo vecchietto. Va però sottolineato, a proposito delle presenze femminili nei film, come in numerose opere (da Il papà di Giovanna, a The burning plain a Vegas. Based on a true story, a Rachel getting married di Johnatan Demme) le madri vengano rappresentate come assenti e disinteressate verso i figli causandone spesso traumi non più rimarginati.
La tragica realtà della guerra irrompe con una storia epica e tragica girata da Haile Gerima, maestro del cinema etiope. Con Teza (Rugiada) (Premio speciale della giuria) racconta le illusioni di cambiamento sociale di un medico tornato in patria al tempo della dittatura di Mengistu. Sospeso fra magia e realtà, il film parte fra immagini di idoli e immagini cristiane accompagnato da canti tribali che si intrecciano parlando di Dio, di rugiada, di giudizio finale, di albe nascenti. Storia intima del personaggio intrecciata alla storia del suo paese in un affresco grandioso tragico, magico, religioso, in cui il regista ha riversato parte delle sue stesse esperienze personali.
Era stata fortemente criticata l’eccessiva presenza di film italiani nelle varie sezioni. E’ confortante ammettere, invece che i film italiani, sia quelli in concorso (Il papà di Giovanna di Avati, Un giorno perfetto di Ozpetek, Birdwatchers di Marco Bechis, Il seme della discordia di Carsicato) sia molti presenti in varie sezioni (Un altro pianeta di Tummolini, Pranzo di Ferragosto di Di Gregorio, La fabbrica dei tedeschi di Calopresti sulla tragedia della morte dei sette operai alla Thyssen-Krupp) sono risultati fra i più apprezzati dal pubblico e dai critici.
Da questa sommaria carellata retrospettiva il giudizio finale su Marco Mueller non può essere che di piena assoluzione. Ha saputo tenere fede allo statuto base di ogni Festival serio puntando su ricerca e sperimentazione più che sulla spettacolarizzazione. Ha decisamente preferito alla scelta facile di privilegiare il lato spettacolare la strada dell’impegno, dell’innovazione linguistica e contenutistica, dando spazio a generi svariati e a cinematografie periferiche e spesso dimenticate. La giuria lo ha seguito solo in parte premiando con il Leone d’argento un’opera sigificativa, simbolica, Paper Soldier, sul dramma umano di un medico che lavora per il primo gruppo di astronauti sovietici, tormentato dal pensiero che i giovani cadetti possano sacrificare la loro vita per onorare la nazione. Su uno sfondo tetro, desolante le emozioni, sulle conseguenze umane della tecnologia sono espresse con lirica essenzialità e grande sapienza filmica. Appare invece del tutto ingiustificato il leone d’oro a The wrestler di Darren Aronofski, film sui trionfi e la decadenza di un vecchio campione di wrestler, girato in modo abile ma seguendo percorsi già visti e con un linguaggio filmico tradizionale.
Nella foto il Presidente della Biennae Paolo Baratta e il Direttore della Mostra Marco Mueller.
Foto a cura di Romina Greggio Copyright © NonSoloCinema.com – Romina Greggio