Fuori Concorso – Proiezioni speciali
I bastoni dei picconi chiamati “stalin”, i lbretti blu per organizzare meglio la lotta, l’esposizione del “traditore” attraverso le scritte sui muri. Periodi di piombo che tardano a svanire. Domande che affiorano dopo decenni. Risposte poco chiare.
Una delle domande più difficili che si possa rivolgere ad un italiano è “Cosa è successo in Italia negli anni ’70?”.
A quali documenti bisogna affidarsi per ricostruire la propria personale visione? Quali sono i depositari della nostra memoria storica?
I muri qui diventano la prima fonte di partenza per la ricostruzione di un dolore. Sui muri degli anni ’70 si trovavano epiteti violenti (più volte nel documentario verrà ricordato il “Kalogero boia” che spuntava in ogni parte della città), intimidazioni (“pagherete caro pagherete tutto”) e interpellazioni precise a persone prese di mira (il professor Petter, per esempio). Comparivano in maniera sistematica e si moltiplicavano, nella loro involuta follia, colonna su colonna dei porticati dei centri storici, assumendo contorni ancora più inquietanti.
Ed è proprio dal ricordo di una scritta, fatta con vernice rossastra, che parte il documentario Sfiorando il muro.
Ai muri, piena dimensione pubblica, si aggiunge e si sovrappone la memoria privata, fatta di Super8 e di fotografie di famiglia.
Il cortocircuito avviene quando la sera del 17 giugno del 1974 nella sede del Msi di Padova, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola vengono uccisi. Per cercare di capire gli anni in cui la violenza politica era considerata normale, Silvia Giralucci, figlia di una delle due vittime, qui co-regista insieme a Luca Ricciardi, intraprende un cammino in cui incontrerà molte persone protagoniste, con ideali di riferimento ben diversi tra loro.
Il documentario si apre con l’incontro tra i reduci dell’Autonomia operaia che con Toni Negri ricordano i trent’anni dal “7 aprile”, il giorno in cui, su ordine del pubblico ministero Pietro Calogero, ci fu il grande blitz che mise in carcere i vertici dell’organizzazione con l’accusa di essere i capi di un Partito armato che comprendeva anche le Brigate rosse.
Da Toni Negri si passa a Guido Petter, scomparso nel 2011. Petter era stato un partigiano e nel ’68 aveva sostenuto la protesta degli studenti. Nel ’77, la sua scelta di difesa delle istituzioni democratiche, lo trasforma in un bersaglio degli autonomi: viene insultato, minacciato, fino all’aggressione a colpi di chiave inglese.
La terza testimonianza è di Antonio Romito, sindacalista, che racconta come gli eventi del 17 giugno e il caso di Guido Rossa, l’operaio che aveva denunciato un fiancheggiatore delle Br in fabbrica, lo indussero ad allontanarsi da Potere operaio e lo convinsero ad andare dalla magistratura.
Il suo memoriale diventerà una parte importante della ricostruzione alla base del blitz del 7 aprile.
Gli incontri proseguono. Silvia Giralucci inoltre incontra Raul Franceschi, ex di Autonomia ora scappato in Francia e Stefania Paternò, che all’epoca dei fatti era anch’essa MSI.
Dopo tutti questi incontri rimangono i perché, insondabili e stratificati. E anche un senso in fondo a tutto: “Perché tutti coloro che furono parti in causa si sentono vittime?”
Una delle ultime interviste è quella al cosiddetto “grande inquisitore”, Pietro Calogero. Il
magistrato le illustra la teoria secondo cui Autonomia e Brigate rosse dividevano il medesimo
progetto eversivo, nel quale gli autonomi avevano il compito di fare da cerniera tra terrorismo e
società civile. Calogero racconta anche del clima di scontro squadristico che trovò a Padova al suo
arrivo, nel 1975, e il fatto che il suo primo processo sulla violenza politica riguardò la destra, 33 giovani del Fronte della Gioventù di Padova accusati di ricostituzione del partito fascista.
In questo preciso momento, il documentario si tira indietro e non indaga, per rispetto e connessione familiare, nessun tipo di implicazione della vittima con le bande nere. Una scena inquietante rimane, però: ad una commemorazione della vittima, gestacci fuori tempo massimo e magliette nere, camerata e idiozie varie. Ma sappiamo che la memoria delle vittime è spesso piegata per scopi incongrui (e infatti la stessa co-regista risulta imbarazzata e indignata).
Rimane un senso di poca divisione tra la storia pubblica e la storia del rancore privato. E le scritte sui muri non aiutano a comprendere le forme inaspettate della violenza.
Un film di Silvia Giralucci, Luca Ricciardi.
Con Guido Petter, Raul Franceschi, Antonio Romito, Pietro Calogero, Stefania Paternò.
Documentario, durata 51 min.
Italia 2012.