Verona: incontro con Isabel Coixet

Fare un film vs. essere regista

[Isabel Coixet->mot1326] è una delle più brillanti e dinamiche personalità del cinema spagnolo contemporaneo.
In un decennio di attività ha realizzato una manciata di film, alcuni dei quali si sono rivelati dei successi internazionali, come La mia vita senza me (2003) e [La vida secreta de las palabras->3196] presentato a [Venezia 62->mot22] nella sezione Orizzonti e vincitore del premio Lina Mangiacapre.

Nel 2008 esce [Elegy->9099] (Lezioni d’amore) con [Penelope Cruz->mot799] e [Ben Kingsley->mot2939], proiettato in anteprima nazionale durante il festival [Schermi d’Amore->mot7506] nel corso di un’ampia retrospettiva dedicata alla regista catalana, ed è di questi giorni la notizia che [Cannes->16188] ha inserito in concorso l’ultimo lavoro della Coixet ambientato in Giappone (Mapa de los sonidos de Tokyo), in lizza per la Palma d’Oro accanto al film del suo maestro, [Pedro Almodovar->mot819].

Le risposte di Isabel Coixet a pubblico e organizzatori di Schermi d’Amore colpiscono per umorismo e sincerità.

PAOLO ROMANO, direttore artistico del Festival: Due cose mi colpirono del cinema di Isabel: innanzitutto fa un cinema internazionale, solo un film è girato in lingua spagnola. Poi i titoli dei suoi film, A los que aman, La vida secreta de las palabras: bellissimi che già racchiudono la straordinarietà dei suoi film.
Ha girato sette lungometraggi, il primo giovanissima e non ha voluto presentarlo qui; il prossimo andrà a Cannes, e si ritroverà a gareggiare con Pedro Almodovar al cui nome è stata spesso accostata.

NURIA VIDAL, critica e saggista: Avevo il desiderio di legare questo festival ad un cinema che parlasse dell’amore con la A maiuscola, e per me la migliore regista spagnola da associare ai sentimenti è Isabel Coixet, per la rappresentazione originale che ne dà. È un momento importante a livello internazionale questo per lei, per essere stata selezionata a Cannes in concorso.

ISABEL COIXET: mi devo spesso giustificare perché non giro i miei film a Barcellona, ma a diecimila chilometri di distanza: non lo faccio per motivi commerciali, ma è un modo per estraniarmi dal mio vissuto quotidiano, e parlare in modo universale, che è un elemento che caratterizza i miei lavori.

CRISTINA ANDREU, autrice della biografia della regista: Isabel è una buona amica, è un po’ malinconica, parla di amore ma conosce molto bene il dolore e lo rappresenta nei suoi film in maniera interessante.

Pubblico: Quali film hanno influenzato la sua carriera di regista?

I.C.: Sono laureata in storia, non ho studiato cinema; il mio punto di vista è stato influenzato da molte cose, arte, pittura, scultura e certo, film. I primi di Bergman per esempio: vidi Il Settimo Sigillo a tredici anni, non capii nulla, ma realizzai che con i film si poteva dire qualcosa di più, c’erano altri territori da esplorare oltre l’intrattenimento. Poi Scorsese, Rossellini, Truffaut, e ora mi piacciono molto i film di Won Kar Way.

PAOLO ROMANO: cosa pensa del doppiaggio dei suoi film negli altri paesi?

I.C. Preferiscxo non vederli, credo che i film siano come li hanno fatti il regista e gli attori. La voce di Ben Kingsley è la sua presenza, è lui, anche con i suoi difetti. In Italia, Germania e Spagna si doppiano i film, e penso che così vada persa una parte del lavoro dell’attore. Sarah Polley per il mio film ha studiato tre mesi per parlare con accento bosniaco, e questo si è perso nella versione italiana. Se la gente non riesce a leggere i sottotitoli, dovrebbe mettersi gli occhiali!


Pubblico: nei suoi film lei privilegia storie originali o derivanti da libri? Come si vede rispetto ad Almodovar?

I.C. La mia vita senza me era un racconto corto che mi servì per dare inizio alla storia, mentre nel caso di Elegy quando uscì il libro di Roth, The dying animal, mai avrei pensato di trarne un film, ma me lo offrirono come incarico e poiché aveva un punto di vista originale, ho pensato di accettare. Tante volte i produttori pensano che se un libro ha avuto successo, sarà una garanzia per il film, ma in realtà non è così. Ho passato mesi difficili a giustificare le differenze tra me e Philip Roth, e non credo di volerlo rifare.
Quanto ad Almodovar, il suo mondo e il mio non hanno nulla a che fare: Pedro è un’icona, una leggenda, circondato da persone che gli ricordano continuamente quanto sia un mito, mentre io sono una madre lavoratrice che va al supermercato e prende la metro, siamo molto diversi, e lo è anche il nostro cinema che tratta di sentimenti in modo diverso.


Pubblico: che ne pensa del cinema italiano?

I.C. Ho lavorato con [Sergio Castellitto->mot766] in [Paris, Je t’aime->4816], e lo trovo meraviglioso, lo adoro come attore, più che come regista, e mi piace molto anche [Valerio Mastandrea->mot702]. Ho visto [Caos Calmo->8938] di cui avevo apprezzato tantissimo il libro, ma mi ha deluso il film, l’ho trovato un’occasione persa di portare un bel romanzo sullo schermo.
Mi piacerebbe lavorare in Italia, ma dovrei prima imparare l’italiano; potrei fare un film a Brescia, a Verona o Roma, qui mi sento come a casa, mentre Venezia la trovo la città più infilmabile del mondo!
Apprezzo inoltre [Sorrentino->mot1090], e la mia passione è [Nanni Moretti->mot2844]. Ho anche lavorato con [Monica Bellucci->mot937] prima che fosse Monica Bellucci: è una donna adorabile, e credo che il suo problema sia essere troppo bella: quando ingrasserà e avrà qualche ruga, sarà un’attrice migliore.

Pubblico: perché la scelta di Penelope Cruz e perché il titolo Elegy?

Penelope era legata al progetto dall’inizio, da quando avevano comprato i diritti del romanzo; me lo ha chiesto lei di essere regista, altrimenti non avrebbe recitato. Ho pensato che l’Oscar doveva esserle dato per Elegy, non per [Vicky Cristina Barcelona->10533], ma Hollywood è Hollywood!
Il titolo Elegy ha a che fare con l’essenza della storia, ma era meglio The dying animal: ho perso la battaglia del titolo perché i produttori americani non volevano questo “animale morente”: credo che siamo nelle mani di gente che soprattutto vuole vendere, posso capirlo.

Ai giovani registi dico sempre di non prestare troppa attenzione al lato tecnico, ma di leggere le Lettere al giovane poeta di Rilke perché è diverso essere regista e fare film: ho voluto dimenticare il mio primo film perché avevo solo la vanità di essere regista più che di raccontare una storia e farne un film.

Foto a cura di Francesca Vieceli Copyright © NonSoloCinema.com – Francesca Vieceli