Louis-Ferdinand Céline pubblica Viaggio al termine della notte nel 1932, probabilmente negli anni più cupi di tutto il ‘900: le ferite del primo conflitto mondiale non riescono a rimarginarsi, l’America subisce ancora i contraccolpi della crisi del ’29, l’Europa, abbandonata ormai ogni forma di illuminismo e governata solamente dall’istinto, è sull’orlo del baratro, tra paura e follia.
Céline è un testimone d’eccezione di quegli anni: è in prima linea nelle trincee delle Fiandre, partecipa alla catena di montaggio della Ford di Detroit, poi diventerà medico nella degradata periferia parigina. E il rapporto con queste realtà è devastante; lo scontro è frontale e violento, non c’è adattamento, il rifiuto è totale, tutto ciò che lo circonda presto assume le sembianze di un folle circo che si muove freneticamente senza seguire alcuna logica. Il suo idealismo è lontano anni luce dalla realtà nella quale è immerso; “Un romantico preso a calci dal destino, e dunque dalla realtà” così si definiva Carlo Emilio Gadda, suo contemporaneo e probabilmente l’autore italiano più vicino al suo sentire; Céline, ancora distante dalla svolta antisemita e filo-nazista, è un uomo in cerca di un’etica, di regole universalmente valide a cui aggrapparsi, una necessità che si scontra con un mondo privo ormai di ogni riferimento, scomparsi i grandi sistemi, i modelli crollano, uno ad uno. Solo l’immaginazione e la scrittura rappresenteranno l’unico rifugio: “Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica”, così esordisce il romanzo, e lo spettacolo.
Ciò che appare stupefacente nell’opera di Céline è la forza della sua scrittura, la capacità di deformazione che riesce ad imprimere al reale e che Germano è abile a cogliere ed esaltare. La quotidiana e deprimente routine, il lavoro, la guerra sono raccontati da un punto di vista straniante; ogni fenomeno viene descritto con un’immagine che immediatamente lo svuota di senso e ne fa emergere le contraddizioni insanabili.
Elio Germano merita un plauso innanzitutto per il coraggio di aver portato a teatro un testo simile, difficile, oltre che per la sua durezza, anche per la sua apparentemente scarsa teatralità: il romanzo di Céline è un lunghissimo monologo, un reiterato ragionamento; Germano sceglie di interpretare l’opera con la stessa foga e lo stesso coinvolgimento di un lettore che segretamente introdottosi nella casa dell’autore, avesse avuto modo di imbattersi nel manoscritto abbandonato sopra alla scrivania; o con quell’emozione, quello stato di eccitazione che si prova quando rileggendo un proprio testo ci si accorge che rispecchia appieno ciò che si intendeva esprimere…la recitazione quindi è appassionata, l’immedesimazione completa e l’infuocata recitazione di Germano restituisce la forza di quella scrittura in cui il sarcasmo e l’ironia amara, amarissima sono i mezzi attraverso cui l’autore riesce a mantenersi in vita esorcizzando quella tremenda vertigine che avverte ogni qualvolta si svela la mancanza di senso che si cela dietro ogni situazione, ogni scelta, ogni vita.
Sul palco assieme a Germano, anche la chitarra di Teho Teardo, autore delle colonne sonore de “Il divo” e “La ragazza del lago” e il violoncello di Martina Bertoni; la musica è protagonista dello spettacolo tanto quanto la parte recitata, Teardo riesce ad imprimere una efficace carica evocativa alla performance, reiterando suoni minimali che talvolta si fondono con le parole, anch’esse ripetute e amplificate e esaltate così nella loro valenza sonora; le due fasi tuttavia si sovrappongono raramente, bensì si alternano, interagendo funzionalmente, ma mantenendo allo stesso tempo una propria autonomia ed una interna coerenza espressiva.
Lo spettacolo sarà al teatro dell’Elfo di Milano fino al 19 febbraio e a Roma dal 21 al 26 dello stesso mese.
di e con Elio Germano – musiche di Theo Teardo, al violoncello Martina Bertoni
durata: 1h
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