“…a bude hur” di Petr Nikolaev (Forum) e “Grandhotel” di David Ondricek (Panorama)

Due film cechi alla Berlinale

Raggruppiamo in questa scheda per motivi di spazio e tematici le considerazioni su due film provenienti dalla Repubblica Ceca presentati nell’edizione 2007 della Berlinale: già dalla loro collocazione in due diverse sezioni desumiamo orientativamente differenze di destinatario e poetiche quasi opposte. Il primo, quello decisamente più interessante ed inusuale per la produzione ceca, è …a bude hur (qualcosa come: “il peggio deve ancora arrivare”), ed è la trasposizione di un romanzo omonimo di Jan Pelc, vietato dalle autorità comuniste, uscito prima nel circuito dell’emigrazione e poi pubblicato in patria solo dopo la Rivoluzione di Velluto dell’89, dove ha assunto presto il prestigio di opera controversa e di culto.

È la storia di un gruppo di giovani indipendenti e un po’ sbandati (negli USA li avrebbero chiamati hippies), che si trovano loro malgrado a diventare ribelli contro la società, visto che la società in questione è la Cecoslovacchia stalinista degli anni Settanta, stato di polizia in cui la censura e l’ottimismo di facciata non sopportano questi ragazzi tutto sesso (nella sua variante più comica e liberatoria), droghe (leggere) e rock’n’roll (o meglio: folk underground ceco, spesso grottesco e parodistico). A questa triade “rivoluzionaria” si aggiunga l’immancabile boccale di birra che accompagna le inconcludenti discussioni d’osteria, e una sempre più emergente voglia di emigrare.

Olin, una sorta di antieroe capellone e anti-istituzionale, riesce ad evitare la naia fingendosi pazzo, ma sia lui che i suoi compagni di bohème dimostrano (questo ci sembra l’assunto del film) di non essere affatto delle banderuole senza valori: le loro aspirazioni, a metà fra il libertario e il libertino, si concretizzano attorno ad uno degli innumerevoli casi di violenza poliziesca del periodo, di cui è vittima un eroe della guerra mondiale emarginato e perseguitato dal regime nella sua nuova condizione di barbone alcolizzato. La morte violenta dell’ex-pilota della RAF loro amico fa scattare nei giovani ed in Olin la necessaria presa di coscienza che “così non si può andare avanti”, con la successiva messa in atto del piano di fuga da un paese-prigione.

Se si riesce ad entrare in sintonia (e il regista ci accompagna in questa direzione senza costrizioni) con la psicologia dell’epoca di questi giovani in cattività, e si fa la tara al loro comportamento pseudo-ribelle, si rimane colpiti dall’autenticità del quadro, più esistenziale che storico, di una società che ha messo a dura prova generazioni di cechi: c’era chi evadeva, c’era chi provava a creare e a mantenere viva la coscienza della nazione con il samizdat e l’opposizione civile. Ma c’è stato anche chi non ha mai visto la fine del tunnel. Un tunnel sporco, sgradevole e irritante come, nel miglior senso del termine però, è questo film del “cinquantenne di belle speranze” Petr Nikolaev.

Curioso, “filologico”, ma un po’ improduttivo forse è poi il progetto di distribuire il film non nel classico circuito di sala, ma in birrerie, festival culturali e concerti dove si possa evitare la pressione “capitalistica e concorrenziale” che, secondo i produttori, nuocerebbe a una pellicola così controcorrente. Mah…

Tutt’altra storia invece, e tutt’altri il pubblico e la distribuzione per un ennesimo classico esempio di mal compreso modello di “commedia ceca”. Se in concorso qui a Berlino abbiamo visto un più che dignitoso Menzel, quello di David Ondricek (figlio di uno dei più grandi direttori della fotografia cechi) è il cinema che fa male ad un paese piccolo e a volte provinciale come la Repubblica Ceca. Ondricek prometteva bene (si veda un non disprezzabile The Loners passato al Festival Alpeadria di Trieste), ma poi si è tranquillamente adagiato su sceneggiature e regie di una medietà compiaciuta, in cui la forsennata corsa al favore del pubblico ed alla soddisfazione dei gusti superficiali di un’utenza giovane e televisiva gli hanno man mano fatto perdere di vista orizzonti cinematografici degni di tale nome. Per carità, Ondricek, per capirci, non è affatto il corrispondente boemo dei vari Vanzina natalizi, ma piuttosto una sorta di fusione deleteria di Veronesi e Pieraccioni (il che forse per il cinema è peggio?…), e anche con questo suo ultimo Grandhotel ci presenta una storiella d’amore in agrodolce portata avanti con poca perizia drammaturgica e a forza di battutine e gag, leggerine anzi che no, da un cast di giovani e carini attori cechi, che assecondano appunto l’immedesimazione aproblematica e soddisfatta di un pubblico giovane senza pretese.

Purtroppo c’è anche da dire che a Praga si sfornano commedie ancora peggiori, mentre senz’altro Ondricek è più garbato che volgare, più superficiale che deleterio, più insipido che noioso. Certo la nostra preferenza va senz’altro al coraggioso e “sporco” tentativo underground di Nikolaev che alla garbata, ma inutile commediola pacificata e finto-problematica di Ondricek