Dopo le puntate alla Berlinale, presso la quale il duo ricevette il suo battesimo nel 2018 con La terra dell’abbastanza – presentato nella sezione Panorama – e quindi il primo riconoscimento internazionale con Favolacce – Miglior sceneggiatura della scorsa competizione ufficiale –, i fratelli D’Innocenzo hanno scelto il Concorso veneziano per presentare America Latina, nelle loro stesse parole «una storia d’amore e quindi, come tutte le storie d’amore, un thriller» che guarda al cinema di genere libero da condizionamenti nazionali e dall’estetica provinciale di tanto cinema nostrano, ma che nel suo essere allusivo non riesce a dare sfogo alla tensione tanto faticosamente costruita, lasciando dietro di sé un pericoloso senso di indifferenza.
Padre di famiglia onesto e lavoratore, Massimo – Elio Germano, già colonna portante di Favolacce nel medesimo ruolo di capofamiglia – fa la spola tra il suo studio dentistico e la casa nell’hinterland pontino, dove lo attendono la moglie Alessandra – Astrid Casali – e le due figlie adolescenti. Al ritorno da una tranquilla serata alcolica con l’amico di sempre, Massimo si accorge però di alcuni strani rumori provenienti dal piano interrato: è qui che si imbatte in una bambina con chiari segni di violenza, in stato di shock e immobilizzata. Cercando di trovare la quadra tra realtà e illusione, il bravo dentista di provincia si troverà costretto a mettere in discussione la realtà che lo circonda, pervenendo a una sconcertante verità.
Da Polanski in poi, che sul tema ha imperniato la propria filmografia codificandone gli estremi, le storie di quotidianità che diventa incubo, con annessa discesa agli inferi dell’uomo qualunque, sono ormai una presenza fissa del calendario delle uscite in sala, come anche un leitmotiv ricorrente di diverse pellicole approdate al Lido nelle scorse edizioni. Ciononostante, almeno nelle sue intenzioni America Latina rappresenta una boccata d’aria fresca per un cinema tragicamente orfano di produzioni di genere come quello italiano, e che proprio grazie agli autori più giovani e meno istituzionali ha iniziato a riportare il pubblico in sala giocando con una tradizione diversa da quella eletta a modello dai nomi più blasonati – anch’essi presenti in Concorso con opere altrettanto pregevoli, ci mancherebbe.
Di appena novanta minuti di durata, America Latina fornisce in apertura tutte le coordinate necessarie a incasellare l’opera, per poi procedere a una decostruzione – di fatto più auspicata in sede teorica che conseguita – nello svolgimento: il rinvenimento della bambina rapita, che urla e morde come una posseduta, introduce subito l’elemento disturbante che accompagnerà, ancor prima che il protagonista, lo stesso spettatore nel suo disperato tentativo di mantenere le apparenze, tra il “sopra” borghese ed elegante e il “sotto” depravato e sordido, la cui inesorabile compenetrazione rappresenta la sfida a tempo scandente il ritmo della pellicola. Successivamente, si intuisce però che questo “sopra” non è perfetto come sembra: il migliore amico di Massimo, Simone – Maurizio Lastrico –, ha bisogno di un prestito per un non meglio precisato affare; la figlia Laura scompare regolarmente con un misterioso fidanzato del liceo, per fare ritorno dopo qualche ora; il padre, malato e violento, lo disprezza e mantiene un contatto puramente formale per averne in cambio qualche soldo.
Di rinforzo a questi elementi stranianti, svelati gradualmente nel corso della narrazione, i fratelli D’Innocenzo aggiungono un approccio all’immagine estremamente sofisticato, tanto che non sarebbe esagerato riconoscere in America Latina il loro film tecnicamente più ambizioso: l’armamentario comprende angoli di ripresa sbiechi o assi direttamente invertiti – la sequenza nella doccia, rappresentante il rovesciamento dei piani della realtà, impiega precisamente detto espediente –, camera a mano appiccicata al volto degli interpreti bruscamente alternata a campi larghi in esterni della desolazione suburbana di Latina, raccordi mancati e decise virate di colore monocromatiche alla faccia del chiaroscuro, tutti accorgimenti atti a minare la regolarità – nonché in certi casi la godibilità – della visione per lo spettatore, impossibilitato a emanciparsi dallo spazio filmico a causa della mancanza di punti fermi.
Ciò detto, è proprio a causa dell’accumulo di questi e altri effetti pirotecnici che America Latina manca il bersaglio, esponendo il pubblico a una risoluzione tanto prevedibile quanto anonima che non rende giustizia all’atmosfera carica di tensione e attesa – questa sì squisitamente di genere – scaturita dal disagio psichico del personaggio impersonato da Germano – sulla cui interpretazione fa affidamento l’intera pellicola, trovando in questa la sua prima, forse unica motivazione per una visione. Se è vero che Favolacce risultava devastante e oscuro per il suo rifiuto di non dare risposte concrete al tragico evento che ne è al centro, è altrettanto vero che l’ultima fatica del duo delude per la sua spirale inconcludente, la cui debole struttura si sarebbe forse potuta perdonare alla luce di un’implosione catartica in grado di dare più spessore e dignità alla follia del protagonista.
Nel complesso, l’impressione che si ha di America Latina è quella di un film di transizione, di una storia dalle grandi potenzialità funestata da una gestazione frettolosa – gli stessi D’Innocenzo avevano e hanno le mani in pasta in più progetti contemporaneamente – che cerca di reinventarsi sul piano visuale per trovare la propria unicità: un tentativo di abbacinare che purtroppo non riesce a nascondere la poca sostanza della produzione nel suo complesso, lasciando intravvedere la lunga strada che i gemelli ancora hanno davanti a sé nella ricerca della propria identità autoriale.