Uno dei momenti più attesi dalla line up di Venezia75 era il confronto tra i due mostri sacri del documentario americano, con Monrovia, Indiana di Frederick Wiseman e American Dharma agli angoli opposti del ring Fuori Concorso. Dopo la parentesi della miniserie Wormwood presentata alla scorsa edizione, Errol Morris torna a far sedere al banco dei testimoni i burattinai della nazione più potente del mondo, anche se non con il mordente e la sagacia che ci saremmo aspettati.

Chi è Stephen K. Bannon? È il cervello dietro la pirotecnica campagna elettorale di Trump e, per un breve periodo, uno dei suoi fedelissimi alla Casa Bianca nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale. È il grande comunicatore che assieme al giornalista Andrew Breitbart (1969-2012) fondò nel 2007 il più vivace network dell’estrema destra americana. È un membro dell’élite – Georgetown, Harvard, Marina Militare –, la stessa élite che ha giurato di spodestare nel nome del popolo. È un amante del cinema hollywoodiano che usa i film per legittimare la sua visione e un regista di documentariTorchbearer (2016), Battle for America e Generation Zero (2010) – di ispirazione patriottica e conservatrice.

Difficile che un personaggio simile sfuggisse al radar di un acuto analista come Morris. «Non riesco a capirla né a capire quello che fa», questa la sua risposta alla domanda di Bannon del perché volesse fare un film su di lui. Lasciando da parte il fedele Interrotron, American Dharma è una chiacchierata a quattr’occhi tra due soggetti che navigano sulla stessa lunghezza d’onda ma non la vedono allo stesso modo sul futuro del proprio Paese. Il colloquio si svolge in un capannone militare, uguale a quello in cui Gregory Peck nei panni del Gen. Savage tiene l’arringa ai suoi in Cielo di fuoco (1959), film preferito di Bannon – di cui vengono mostrati degli spezzoni, così come avviene per le altre pellicole cui si fa riferimento – in quanto perfetto esempio di come il proprio dharma andrebbe seguito fino in fondo. Ma che cos’è il dharma per Bannon e che peso ha nel suo bagaglio da cinefilo, zeppo del western targato FordSfida infernale (1946), Sentieri selvaggi (1956) – e dell’epopea della Seconda Guerra MondialeIl ponte sul fiume Kwai (1957) di David Lean?

È l’obbligo e l’aspirazione – e perché no anche il destino – dell’America a guidare il mondo, traducendo in prassi il mito delle sue origini (bianca, cristiana, repubblicana) finora rimasto impresso solo su pellicola. Per farlo c’era bisogno di una rottura, di una figura abbastanza ebbra di quel mito da traghettare la nazione verso il futuro che rischiava di non vedere mai. E quel qualcuno era l’odierno presidente Trump. Il regista lascia la scena all’interlocutore per permettergli di spiegare questa peculiare teoria, e in men che non si dica American Dharma diventa una sorta di “Bannon Show”, con il primo che talvolta si lascia anche mettere alle strette – si pensi a quando Bannon lo canzona per aver votato Clinton – e la tesi del secondo che guadagna punti e da folle inizia ad avere senso. Date le circostanze ci aspettavamo di vedere qualcosa di più vicino a The Unknown Known (2013), ma Morris, pur senza farsi travolgere del tutto, preferisce mollare le redini e lasciare che il quadro si delinei secondo i discorsi che sono nelle corde dell’ex numero uno di Trump.

American Dharma tradisce più del consueto – e forse del necessario – l’orrore e la fascinazione per l’intervistato, il cui paradigma, benché intangibile come la valuta del videogioco World of Warcraft o i tweet, funziona e ci porta a riconsiderare la definizione di “reale”. Ci sarebbe piaciuto vedere Bannon messo in crisi, e invece ci si dovrà accontentare di cogliere le contraddizioni in cui lui stesso incappa.