VENEZIA – Quasi in finale di stagione va in scena al Teatro Malibran un nuovo allestimento di Apollo et Hyacinthus, prima opera dell’undicenne Wolfgang Amadeus Mozart. Trattasi, in realtà, di un intermezzo su libretto latino del benedettino Rufinus Widl che gli venne commissionato dall’università di Salisburgo. Debuttò il 13 maggio 1767, ottenendo grandissimo successo, rivolto al compositore in particolare. Il cast, formato da soli interpreti maschi, vide impegnati studenti dai dodici ai diciotto anni, e dunque non professionisti.
Conosciamo il mito, narrato nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio, che racconta il dolore di Apollo per l’involontaria uccisione dell’amato Giacinto, ricordato in eterno nell’omonimo fiore. E’ interessante riflettere sull’operazione di straightwashing, mi si passi il termine, compiuta da Widl che, per prendere le distanze dal palese omoerotismo, muta radicalmente l’intreccio ed ecco Ebalo, re di Laconia e padre di Giacinto, Melia, la principessa sua figlia, e Zefiro, amico fraterno del ragazzo, il vero reo. Cambia la facciata, ma la sostanza resta nel libretto e nel contesto. Zefiro palesa fin dalle prime battute un’amicizia, intesa casta da Giacinto, ma vissuta con altri interessi da Zefiro stesso. Teniamo poi presente che piena era (ed è) nel pubblico la consapevolezza di cosa significava studiare in un contesto esclusivamente maschile, dove frequenti potevano essere le relazioni omo o bisessuali. I testi classici non erano censurati ed erano ben conosciuti da quegli stessi allievi chiamati a portare sul palco gli amori eteronormati degli dei. Quella di Widl sembra quindi una lezione morale, nemmeno tanto velata, su come gestire i sentimenti omoerotici che potevano nascere tra i confratelli.
L’allestimento, curato dalla regista Cecilia Ligorio in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, è all’insegna della metamorfosi totale, in primis cromatica. Dalla reggia di Ebalo, luogo dimenticato privo di colori, si passa alla vivace street art con l’arrivo di Apollo, autentico catalizzatore dell’azione. Con la morte di Giacinto i toni e la scena virano al minimal, con un efficace dialogo tra tinte blue e bianche, fino all’esplosione rossastra della mutazione finale. A compierla sono loro, i ragazzi dell’Accademia che in scena fanno e disfano lo spazio, rimanendo nell’ambito della metafora con grandi lettere che formano ora le parole Amor, Timor, Eros, Mors… e Metamorphosis. Solo Giacinto e Apollo, ponte tra gli antichi e noi, vestono abiti moderni e ciò trova senso nel distinguere la vera natura del mito dai personaggi aggiunti di Widl che indossano fogge settecentesche. Nel complesso, la macchina teatrale funziona leggera e fluida, coniugando tradizione barocca e contemporaneità.
Nei ruoli del titolo si distinguono Kangmin Justin Kim, Hyacinthus grazioso che seduce con cromatismi convincenti e garbate fioriture in “Saepe terrent Numina”, e Raffaele Pe, Apollo elegante che strappa consensi nel duetto “Discede crudelis”. Barbara Massaro nei panni della principessa Melia dimostra una salda padronanza della tecnica vocale, agile nell’impervia aria di bravura “Laetari, jocari” e squisitamente dolente nel “Natus cadit”. Krystian Adam è Ebalo imperioso e ben delineato. Danilo Pastore si disimpegna discretamente nei panni del geloso Zefiro. Puntuali Enzo Borghetti ed Emanuele Pedrini nelle vesti dei due sacerdoti di Apollo.
Alla direzione dell’Orchestra del Teatro La Fenice, davvero ispirata in questa preziosa produzione, c’è Andrea Marchiol che tiene perfettamente le fila buca-palco, artefice di una lettura ricca di chiaroscuri, efficace sia nell’espressione degli “affetti” sia nei momenti più patetici.
Successo per tutti alla recita di domenica 9 ottobre.
Luca Benvenuti