CONCORSO – Oleg e Katja sono una coppia in crisi. Entrambi dottori, il primo vaga indomito per la città su di un’ambulanza, la seconda si ammazza di fatica al Pronto Soccorso, ma la tensione e gli sforzi da loro impiegati per salvare le vite altrui incidono in modo esiziale sulla capacità di conservare l’equilibrio del loro rapporto.

Il russo Boris Chlebnikov è stato fino ad ora, a parere di chi scrive, un oggetto non sempre ben identificabile, una meteora o una cometa, un UFO difficile da inquadrare senza i mezzi critici adeguati e una certa dose di paziente condiscendenza: promessa un po’ minimalista e talento mai pienamente espresso, portatore (in)sano di una visione sottotraccia e propagatore coerente di una narrazione libera e volontariamente “debole” (a tratti, forse, persino sfilacciata), che però non convinceva mai in toto e ci costringeva a rimandare la votazione definitiva “a settembre”.

Ebbene, questa volta, la promozione a pieni voti nella categoria degli autori russi più interessanti non gliela si può più negare.

Dopo i primi lavori girati in coabitazione con Aleksej Popogrebskij (su tutti il road movie Koktebel’, 2003), l’autore moscovita si era ritagliato il ruolo di habitué berlinese-veneziano e un certo meritato seguito con Free Floating (2006) o ancora Sumasshedshaja Pomosc (2009), dove personaggi un po’ indefiniti si muovevano in altrettanto indefiniti spazi periferici, quasi a delineare una poetica degli outcast e dell’indecisione diegetica, che rischiava però di stancare un pubblico abituato ad emozioni più forti, e forse anche qualche addetto ai lavori presso il quale l’apertura di credito non era illimitata. Sia chiaro, lungi da noi criticare stilemi più che legittimi quali la rarefazione psicologica e la decentrazione fattuale, ma seguendo Chlebnikov si affacciava costante il dubbio che fossimo di fronte a una certa immaturità compositiva, o, peggio, a certa maniera. Con questo suo ultimo Aritmija, dicevamo, il buon Boris ha forse finalmente realizzato a pieno il suo talento narrativo e compositivo (ma non poniamo limiti alla provvidenza e al suo futuro sviluppo). Diciamo che per ora è uscito finalmente dal Limbo.

È come se il regista avesse deciso (forte dell’aiuto alla sceneggiatura di Natal’ja Mescaninova) di condensare in una più classica struttura di leitmotiv e ritorni tematici, di sviluppi drammaturgici e mini-climax emozionali, tutti i piccoli (finora invero un po’ sprecati) tesori di talento già presenti a mozzichi e bocconi nei suoi lavori precedenti. Paradossale è forse che questo suo tempo narrativo più strutturato, questa sua ritmica di danza più raffinata fra personaggi e situazioni (per quanto vividamente sincopata e zigzagante) si sviluppino con tale maestria proprio in un film dal titolo anti-ritmico per definizione…

Persino il suo attore-feticcio Aleksandr Jatsenko sembra un altro: non crediamo che si tratti solo di una naturale maturazione performativa rispetto ai suoi primi stralunati ruoli di una decina di anni fa; qui si sente dietro il “progetto”, la “scrittura”, che si condensano in empatia. Il suo Oleg, novello Nicholas Cage in giro per la città a salvare vite (qualche parallelo con Bringing Out the Dead di Scorsese c’è davvero) guadagna in compattezza e presenza scenica, restituendoci un personaggio fra i più coinvolgenti degli ultimi anni di cinema russo. Torniamo ad indagare le cause di questo salto di qualità: lasciato il suo compagno di scrittura Aleksandr Rodionov, temprato dalle ultime sue attività televisive (ha girato dei serial per la TV russa), forse Chlebnikov ha saputo trarre il meglio dalla nuova collaboratrice, la già citata Mescaninova? Il lavoro a quattro mani, la collaborazione dei due sessi, la novità della coppia autoriale hanno forse giovato in modo virtuoso sulle dinamiche di applicazione della pagina scritta su due protagonisti in stato di grazia.

L’alternarsi calibrato di esterni ed interni (fra interventi salvavita e disastrosi dialoghi sentimentali in un cucinino di periferia) fa piazza pulita ad un tempo degli stereotipi asfittici da family-drama e della monotonia da serial ospedaliero, pericoli (entrambi) che si affacciavano dietro l’angolo. Sempre Jatsenko aiuta la giovane partner Irina Gorbacheva a dare il meglio di sé in una sorta di tenero gioco al massacro che segue dinamiche tanto perfette quanto naturali: le liti domestiche si intrecciano ed avvolgono con esemplare effetto-Doppler ai drammatici interventi sul campo, di modo che si viene a delineare un basso continuo ininterrotto di pressione mentale, costellata di scintille umane pronte ad esplodere. Mentre l’esistenza dei protagonisti crolla a precipizio in picchiata a vite, è proprio il film che si eleva a livelli di naturale tensione superficiale: lo schermo vibra delle urla di Katja, è scosso dalle lacrime di Oleg, pulsa nei tentativi di dare una chance ai pazienti moribondi, a costo di trascurare eroicamente tutte le possibili “regole d’ingaggio”.

Un altro dei cliches che il film evita con slancio e sicurezza da autore ormai maturo è lo scimmiottamento di Ken Loach: gli aspri scontri sul luogo di lavoro fra i portatori di una nuova, asettica e cartacea disciplina burocratica e i sostenitori dell’umanità ad ogni costo non si inaridiscono nei luoghi comuni di una dicotomia moralista. Anche i sostenitori del nuovo ordine (che considerano i pazienti come oggetti da liquidare nel minor tempo possibile) hanno la loro particella di ragione: del resto Oleg, con il suo lassismo e una innegabile predisposizione alla bottiglia, in modo indiretto causa anch’egli danni irreparabili ed è bene che un’entità superiore lo controlli. Salvare vite in modo spericolato di per sé non fa del protagonista maschile un eroe. Avere a che fare con un marito alcolizzato di per sé non fa della protagonista femminile una vittima. Essere dei manager tagliagole non rende i portatori del “Nuovo Ordine” dei mostri disumani.

È in questo sfuggire con leggerezza alle trappole del già visto che Chlebnikov (aiutato quanto si vuole in sede di scrittura…) si propone in una nuova veste, come finalmente liberato dal bozzolo dei propri vezzi autoriali e, speriamo, ormai deciso a sporcarsi le mani con i problemi dell’età adulta.