Oggi sono meno di 7000, ma duecento anni fa il vaiolo li aveva sterminati quasi tutti. Sono gli Atikamekw, una popolazione indigena concentrata nel Canada orientale.
Treccine ai capelli e acchiappasogni appesi al retrovisore della macchina non rimpiazzano una cultura smarrita, una lingua oramai mista del curioso francese del Québec, tradizioni ridotte ad attrazioni per turisti, un habitat naturale millenario distrutto da speculazioni di ogni tipo.
Shawnouk e Kwena sono fratello e sorella. Quasi adulti entrambi, hanno alle spalle una famiglia già sbandata, con un patrigno indigeno e poliziotto e una madre succube. La ragazza è già madre a sua volta, il ragazzo è uno scombinato, come tutti quelli della zona. Una zona dove gli uomini hanno la pelle del viso deturpata da postumi di vaiolo, oppure dalle conseguenze di abuso di fumo e alcol. Chi lavora fa il meno possibile: “Ci rovini la piazza”, è il rimprovero cialtronesco a chi si da più da fare. Alcool, droga, disoccupazione, machismo contro le donne: sono le piaghe di questa gente, così come degli indigeni d’America, dei Maori della Nuova Zelanda, degli aborigeni in Australia e in genere dei popoli sopraffatti dalla “cultura” europea, quella dei “bianchi” come vengono definiti dagli Atikamekw.
Ma in tale contesto nemmeno i “bianchi” sono un buon esempio. Un francese infatti coinvolge Shawnouk in un furto a mano armata in una villa, però la faccenda si mette male e nel tentativo di proteggere il padrone della casa, il ragazzo uccide il francese.
Tormentato dai sensi di colpa, lui che non riesce nemmeno a lavorare al canile perché lì gli animali randagi vengono soppressi, è ancora più ingabbiato dal finto alibi che gli costruisce il patrigno.
“Il ragazzo che conoscevo aveva progetti e rispetto per se stesso”, gli ricorda la sua ex fidanzata. Ma il giovane non ha più nessun rispetto di sé; dopo un tentativo di suicidio si da alla fuga nella foresta. “Le stelle che vediamo sono estinte da 10 mila anni… questa è una delle prove che l’universo non è eterno”: è una frase registrata su un apparecchio rubato nella villa, che il fuggitivo ascolta e riascolta. L’inizio di una meditazione, di un percorso che lo porta non alla polizia e nemmeno nella curiosa chiesa costruita come un grande tipì, bensì in una comunità di recupero dove vengono praticate e insegnate le usanze e i riti tradizionali. Inclusi i canti indigeni, così intensi da diventare liberatori, con suoni modulati e ritmati dal tamburo.
Il film, primo lungometraggio della sceneggiatrice, regista e produttrice canadese Chloé Leriche, mostra immagini grandiose della natura di quella regione, con i suoi magnifici boschi e per contro le distese di alberi spogli e malati o abbattuti. Non è narrativamente del tutto risolto, tuttavia possiede l’indubbio pregio di portare alla ribalta il grande problema di questo piccolo popolo che, come molte altre minoranze, pare non avere più radici né futuro. E infatti il film non ha un vero finale, perché anche se questa storia finisse davvero bene, chissà quante altre simili si concluderebbero in modo molto diverso.
La pellicola è in concorso per il 34° Torino Film Festival.