Teste mozzate, vecchie star smemorate, finti militari, gatti in abbondanza, congreghe di alchimisti coprofagi, strozzini in tuta di nylon e salmone quanto basta soni gli ingredienti di questa scalcinata commedia che altro non è il battesimo del fuoco della coppia formata da Alexia Walther e Maxime Matray, insieme dietro la mdp da circa dieci anni da quanto sbancarono il festival Entrevues Belfort con il cortometraggio Twist.

L’accoppiata sceglie Venezia per presentare il lavoro più importante della propria carriera nel cinema, occupando così la posizione chiave  film spartiacque della 33esima SIC. Il nostro bello addormentato è Fabien, oramai vecchia star di una brutta sitcom anni ’90 nel ruolo dell’adorabile scemotto. Il mondo s’è dimenticato di lui e Fabien non perde occasione per ricambiare il favore, al punto che gli basta addormentarsi per resettare l’ippocampo e trovarsi al risveglio a dover venire a capo di situazioni di cui non ricorda nemmeno la genesi. Al funerale di un adolescente di cui ricorda poco o nulla aiuta non troppo volontariamente un piccolo delinquente che si finge militare, Yoni, l’amante del defunto, a porgere l’ultimo saluto alle spoglie dell’amato, finendo però per unirsi a quest’ultimo in una fuga folle dopo aver rubato la testa priva di vita del ragazzo.

Risulta difficile inquadrare Bêtes blondes per gran parte della sua durata, tanto è confusionario, dinamico, folle, appunto. Da un lato si tratta di una commedia nera senza scrupoli sul tema del ricordo e del rimpianto che non fa sconti a nessuno nella sua conclusione, dove la spiegazione finale lineare ma non banale pone la parola fine a 100′ buoni di delirio. Sul versante opposto ben presto il film inizia a configurarsi come un road movie classico, con Fabien che deve a tutti i costi raggiungere la sua meta (l’unico bar parigino tuttora attrezzato con le sputacchiere) e una serie di stramberie che sembrano seguirlo a oltranza, da quando si risveglia in montagna al suo effettivo ritorno a casa.

Il termine migliore con il quale provare a restituire l’impronta del film è lynchano, con tutte le dovute cautele, ovviamente. Che il maestro di Missoula sia un’ispirazione dal punto di vista dell’architettura filmica (da quello visivo, certamente meno) è innegabile: la struttura è quella dell’ultima fase di Lynch, quella del racconto che miscela reale e sognato per andare a rappresentare un’ulteriore realtà, quella cinematografica, che miscela i due strati in un unicum autosussistente. Da una certo punto di vista potrebbe considerarsi una schematizzazione semplificata del percorso narrativo-mentale che usava il maestro. Anche Fabien ha i suoi fantasmi (o Dullahan, se vogliamo essere precisi) da quali fuggire e una banale disavventura che gli capita un giorno come tanti prende pian piano corpo, grazie alla sua immaginazione, al suo delirio, diventando un percorso di accettazione del lutto nel bel mezzo di una lussureggiante locura.

Mischiando elementi dalla realtà fattuale a quella creata febbrilmente dal protagonista che usa come punti di transizione i vecchi tormentoni e gli episodi più piacevoli della sua adorata sitcom, il duo Walther-Matray ci trasporta in questa avventura ritmata che a ogni sequenza stupisce sempre più per il livello di umorismo dissacrante che riesce a raggiungere, accavallando un’ilarità generica data dalla situazione e da una regia molto educata che sa benissimo quando forzare a quando invece mordere i freni con una creatività allucinante (e allucinogena) per quanto riguarda gli spunti amari. Si susseguono una serie interminabile di simbolismi e allegorie (traducendo financo impostazioni piuttosto complesse) che si faranno ricordare fino alla fine quanto negli ultimi dieci o quindici minuti i nodi iniziano a venire al pettine e si intravede il senso complessivo della vicenda.

L’ultimo punto esclamativo è posto proprio in questo modo, coronando degnamente, senza appesantirsi troppo nel passaggio di fatto da un genere all’altro, da un registro a un altro (radicalmente differente, per di più) e risaltando le sfumature di ogni risata provocata finora grazie all’incredibile invettiva comica di cui sopra. Ogni ghigno imbarazzato e ogni riso soffocato dello spettatore acquisisce di colpo un senso grazie a uno schema narrativo che prima toglie quel poco che basta a nascondere il senso delle cose e poi lo libera tutto assieme, nobilitando tanto la visione quanto la carica umoristica di cui sopra. Un gran film, che sicuramente introduce nel cinema che conta una coppia autoriale di alto livello e ancor più rosee prospettive. Si ride e si ride di gusto con Bêtes blondes, a patto però di apprezzare questo tipo di cinema, avere abbastanza pazienza, e soprattutto di essere delle brutte persone. Un film nerissimo senza essere lugubre, altrettanto divertente ma mai sfociando nel comico in senso stretto, questo è Bêtes blondes.

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