La Polonia è il territorio prezioso in cui il tormento delle coscienze si sublima nel sondare gli interrogativi che affondano nel richiamo dell’ultra sensibile, date le basi escatologiche di un cattolicesimo perennemente in fermento ma mai in fase di abbandono.

E’ questa la sensazione che ci assale nell’assistere allo spettacolo del Re Lear nella versione del polacco  Al Teatro delle Tese in Venezia. Si è catapultati con forza attrattiva nell’ agone di una politica interiorizzata e in  tematiche non risolte, perché colme di interrogativi proiettati nell’insondabile. Si rivedono le richieste interiori dei  maestri dell’Autore, su tutti Witckiewicz, poi Grotoswski (visto decenni fa in quel di Mirano, Ve) e il cinema di Wajda.

Klata non è nuovo a questi esperimenti teatrali come ci testimonia il suo  originale “Amleto”

Manomettendo e immettendo nel nostro tempo il “Re Lear” di Shakespeare il regista penetra nella psicologia tragica della vecchiaia e della provvisorietà del potere: un re nelle cui mani vede sgretolarsi ogni apparente onnipotenza  e che vuole perpetuarla nel suoi figli in un angoscioso fermento di dubbi, sospetti e delitti. Tutto l’andamento  degli avvenimenti è proiettato nelle sale del Vaticano, luogo esemplare del tradimento del messaggio evangelico e in cui si muove con più coscienziosità il  patrimonio  umanistico-religioso dell’autore,in chiave estremamente problematica.

La scenografia soverchia la sceneggiatura, pur validissima, anche perché  arricchita dalla sapiente immissione di una rinnovata musica pop che traduce più delle parole la precarietà e il tragico percorso degli eventi. Alle improvvise e ponderate singole danze è affidato un linguaggio di improvvise penetrazioni nelle angosce che pervadono l’ambiente e la fragile  interiorità dei protagonisti.

Non aleggia l’armoniosa atmosfera del “De Senectute” ciceroniana in cui la simbiosi stoica-epicurea profuma la vecchiaia di saggezza e di autocritica accettazione, ma incombe l’angoscia di esistenze ribelli al rigore di un dettame religioso e recalcitranti e resi indifesi al rigore inevitabile del redde rationem escatologico.

L’autore  tenta di rivaleggiare con Shakespeare nel fervore dialettico e ne rimarrebbe succube se non immettesse, improvviso, il fermento linguistico della sua musica che eleva il dibattito e la drammaticità. Non si può tralasciare l’impatto affascinante della scena iniziale, traduttrice eloquentissima della vacuità ipocrita del rigido e solenne cerimoniale ecclesiastico, musicato da appena accennate cadenze dei celebranti.

Non si intravvede blasfemia nella concatenazione tumultuosa degli accadimenti: sale limpido ma drammatico l’indice dell’accusa  del tradimento al dettame evangelico e al suo inevitabile abisso di accecamento etico. C’è chi vede in questa originale tragedia il suggerimento aristotelico-tomista che pur nello sfacelo degli “accidenti” rimane intatta la “substantia” dell’ansia religiosa dell’umanità.

(Ha collaborato Farida Monduzzi)