Il tour-premio del soldato semplice Billy Lynn e di tutti gli adepti del Reparto Bravo, in missione in Iraq, mette su un piatto d’argento un’immagine della guerra edulcorata al punto da coincidere con una rappresentazione del tutto falsificata.

L’ultima pellicola di Ang Lee, in uscita in Italia il 2 febbraio – Billy Lynn’s Long Halftime Walk, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ben Fountain – ci racconta la discrasia tra senso del dovere e onore per gli affetti, senso dell’onore e personalità dilaniate, attraverso i ricordi di un diciannovenne decorato per il suo eroismo militare in medio-oriente.

Lo spettatore coglie subito il paradosso di quanto scorre sullo schermo, al servizio del quale il 3D non si è rivelato essenziale per empatizzare con dramma e dubbi del soldato Lynn-Joe Alwyn. Nonostante il regista taiwanese si sia avvalso del 3D in favore di un maggior impatto d’azione sullo spettatore, a suo dire, piuttosto che esprimere una necessità intrinseca alla pellicola e alla storia, il suo utilizzo sembra più una sorta di compromesso con le esigenze di mercato.

La vittoria dei Dallas Cowboys, nel Giorno del Ringraziamento del 2004, allo stadio di Denver, confonde ad arte i fuochi d’artificio con le esplosioni della guerra, nella mente di Billy e dei commilitoni. I soldati, relegati a grotteschi fenomeni da baraccone – Elephant man docet – nelle loro mimetiche, sono soli in mezzo a tantissima gente e sembrano maschere ad uso e consumo di sorrisi superficiali, di buontemponi che parlano troppo, o di pescecani dell’entertainment dal volto non casuale come quello di Steve Martin.

Tutto è business e la sorella di Billy, Kathryn-Kristen Stewart, outsider in famiglia quanto lui, non nasconde le sue angosce e il suo senso di protezione verso suo fratello.

“À la guerre comme à la guerre”, per un lavaggio del cervello che non rispetta nessuna sensibilità? Un patriottismo che si nutre del sangue dei suoi figli per loschi giochi di potere?

Tra dovere verso Patria e divisa e amore per la sorella, Billy sceglie di continuare a onorare il Paese, proprio lui che potrebbe ancora avere una chance di salvezza senza disonore. La roulette russa de Il Cacciatore trasforma la morte certa del film di Cimino, reale o metaforica non importa, in una speranza apparente, perché spazzata via ad arte dall’assenza di spirito critico nel giovane Lynn, ancor prima che dai fatti della vita. Un tornaconto spietato dal sapore oligarchico vince su una personalità debole verso la vita, quanto coraggiosa nell’istinto e nello spirito di squadra.

Non c’è la brutale lucidità e la cattiveria de Il Cacciatore ma Lee gioca bene sui piani temporali, accontentandosi solo di un momento ristretto e transitorio della vita del protagonista, in cui molto si potrebbe ancora giocare, a differenza del film di Cimino. Il ritmo equilibrato dello storytelling accompagna quello illuministico di una fotografia dalle nuance polverose e confuse nelle scene di guerra, contrapposte ai colori netti e patinati dello spettacolo allo stadio.

Ciononostante il film resta debole sul piano relazionale. Il rapporto fra i due fratelli, per quanto di una forza viscerale, non è molto indagato e comunque la presenza del resto della famiglia non aggiunge nulla al plot né alla dimensione psicologica del personaggio; così come non aggiunge molto il flirt fra Billy e l’avvenente cheerleader, se non per l’evidente confusione tra l’uomo e la divisa nella testa della ragazza, incapace di guardare alla sensibilità d’animo del giovane, nascosto nella sua timidezza.

“Siamo un popolo di bambini e andiamo fuori per crescere”. Eppure la guerra vera, col suo codice spietato e ingiustificabile, ti permette di guardare in faccia il nemico in carne e ossa dinanzi a te, che ti sputa dritto in faccia il suo odio con armi evidenti e inequivocabili. Là dove la guerra di tutti i giorni nasconde insidie e trappole alimentate dall’assenza di codici, eleggendo l’intero prossimo a potenziale nemico con la faccia d’angelo, dalle armi sempre più nascoste, mutanti e multiformi.

L’“I love you” del sergente verso i suoi ragazzi è sincero. Lui crede nel suo lavoro e nella sua missione. Ma la domanda resta: è più nobile onorare il senso del dovere o abdicare a lui per coscienza, per spirito critico, unica vera arma alleata dell’animo umano e di una crescita matura e consapevole? Ed ancora: cosa c’è di più onorevole dello spirito di appartenenza? Se agli affetti più intimi o al Paese, la scelta resta comunque molto sofferta.