Un’attesa prolungatasi sei mesi oltre la data preventivata spezzata solo dall’antipasto Bandersnatch non ha potuto evitare di gonfiare ancora di più le aspettative per la quinta stagione di una serie come Black mirror, capace di approdare sui dispositivi del grande pubblico televisivo dopo una genesi molto particolare. Questo continuo rimandare la data di uscita, sia stato per motivi di produzione o conflitti di scheduling, non ha però fornito il tempo necessario per consentire a Netflix di distribuire un’intera sestina come nel biennio precedente, e pertanto si ritorna alle origini, con una stagione di soli tre episodi.
Il plot
Sul piano strutturale non c’è nessuna variazione, quindi la formula rimane quella di tre episodi stand-alone senza tuttavia, almeno in questo caso, la copertura di una vasta gamma di tematiche, anzi questo trittico di puntate ritorna su strade già battute; nella fattispecie Striking vipers si concentra su due vecchi amici alle soglie dei quaranta che, insoddisfatti della loro vita sentimentale finiscono per allacciare una relazione attraverso un videogioco, mentre in Smithereens abbiamo un tassista che prende in ostaggio un dipendente di un social network per poter parlare direttamente con il fondatore dello stesso, dovendo confessargli qualcosa di importantissimo, e infine Rachel, Jack e Ashley Too chiude con una storia sul mondo della musica pop intrecciando le vicende di due sorelle orfane di madre dalla personalità opposta con la vita di una popstar depressa alle prese con una zia manager senza scrupoli.
La serie
È sufficiente dare un’occhiata agli articoli delle due stagioni precedenti targate Netflix per accorgersi di come Black mirror abbia subito una profonda trasformazione a livello semantico e d’impianto, e pertanto non vale la pena soffermarsi troppo a ribadire concetti già trattati; d’altro canto va detto che è difficile trovare elementi di novità rispetto agli ultimi anni, quindi inevitabilmente saremo leggermente ripetitivi.
Tre episodi, abbiamo detto, non innovativi, visto che Striking vipers sostanzialmente ricalca Playtesting (episodio 3×02), Smitheerens è la brutta copia di Shut up and dance (3×03) e Rachel, Jack and Ashley too incrocia tematiche e spunti da prima e seconda stagione in generale. Elemento che già infastidisce di suo ma che diventa rilevante nel momento in cui già con la prima puntata emerge la sensazione di guardare qualcosa di vuoto dentro, senza idee e affidato alla mera invettiva narrativa (ed estetica, per tratti, nel primo e, soprattutto, nel terzo episodio). In qualche modo Brooker sembra aver ribaltato la gerarchia interna all’episodio in modo totale: se prima veniva la riflessione critica su un potenziale problema connaturato allo sviluppo tecnologico e la sua espressione era affidata a un impianto narrativo piuttosto semplice, spesso minimalista con pochi ambienti, pochi personaggi e una scaletta rudimentale fatta di due o tre “atti”, in questa quinta stagione ancora più che nella quarta e nella terza si hanno capovolgimenti, passaggi da un contesto all’altro, dinamismo, proliferazione di personaggi secondari e di contorno con il compito di rendere meno statica una maggiore durata degli episodi (siamo in ogni caso sopra l’ora), e via dicendo.
Non che ciò sia un male o rappresenti la violazione di chissà quale codice etico, ma questa accresciuta capacità elaborativa non ha altro compito se non quello di coprire la mancanza di consistenza delle puntate tout court. In Striking vipers, veramente, non si capisce cosa aggiunga il fattore semi-fantascientifico alla tematica. Tralasciando poi lo spirito borghesucolo del non osare mettere in scena il rapporto omosessuale preferendo affidarsi all’espediente del personaggio femminile, non si assiste a nulla più che a un mediometraggio su un rapporto di coppia che va al catafascio e sfocia con entrambi i coniugi che trovano una scappatoia dal clima soffocante aprendo la relazione. Se Danny invece di cercare svago con l’amico su un videogioco online in realtà virtuale si fosse rivolto a un sito di incontri gay che cosa sarebbe cambiato? Striking vipers non è una riflessione sul profondo cambiamento della sfera affettiva delle persone operato da una parte dello sviluppo tecnologico, non è certo una disamina di come l’evolversi dei dispositivi costringa a mettersi in gioco in maniera più totalizzante e di come possa dunque portare a scoprire un che di represso (viene addirittura ricordato a più riprese che entrambi non sono affatto omosessuali), e tanto meno riesce a configurarsi come qualcosa di più di un semplice triangolo amoroso, e la tecnologia come tema non c’entra veramente nulla.
Un po’ meglio va con Smithereens, che almeno riesce a sfiorare qualche suggestione interessante, come la dipendenza da social network non come patologica ossessione del singolo ma come scelta tecnica nella programmazione pur di potenziare il lato commerciale, la rilevanza dei big data e la loro complicata gestione nel momento in cui entrano a far parte del sistema capitalistico come valore, e soprattutto – un unicum recente – la sottolineatura di come la natura di tali colossi telematici non sia affatto controllabile dall’uomo, bensì gli sfugga. In questo senso è giustissimo non demonizzare il creatore, ma anzi, renderlo come un povero tonto con le bizze da genio/artista. La drammaticità della situazione potenzialmente suicida aiuta a forzare la mano permettendo uno spirito più greve (anche se le rotture di ritmo sono frequenti purtroppo) e soprattutto, senza dubbio alcuno la tematica dell’arbitrio ridotto di fronte alla tecnologia è l’unico spunto interessante delle ultime due stagioni, specie nel momento in cui pone come possibile l’opportunità di garantire un’espiazione. È cioè una riflessione generale portata su un piano contingente come fosse uno “studio di caso”, cioè è quello che era Black mirror, peccato però che non affondi mai il colpo, mai proprio, e che preferisca dileggiarsi nell’indagine più che sul dilemma interiore del protagonista lavorando di fantasia negli espedienti come fosse un CSI qualunque: è impossibile essere crudi se si lavora di più sulla forma, figurarsi poi se si forza un happy ending (o giù di lì, comunque il finale è addolcito) in maniera così disorganica.
Rachel, Jack and Ashley too invece è semplicemente un macchietta, non una puntata di alcunché, di Black mirror poi… L’episodio è una sorta di filmetto action in stile Disney. Non a caso abbiamo Miley Cyrus che replica quella che deve essere stata la sua trasformazione da bimba-Disney a un profilo più punk (?). Ashley è infatti una cantante per adolescenti la cui immagine spensierata viene sfruttata dalla zia per perpetuare un mito e soprattutto una fonte di reddito, ma un’invenzione commerciale di quest’ultima, una bambola-gagdet di Ashley con una AI sviluppata per reagire a immagine e somiglianza del personaggio della popstar si rivelerà invece la chiave per riportare la situazione alla normalità e far trionfare i buoni sentimenti. Già così è abbastanza sdolcinato, ma in primo luogo reitera la vacuità di Strinking vipers perché l’elemento tecnologico non rappresenta nulla e aggiunge ancor meno, e in secondo è trash. Realmente, la narrazione è velocissima, ipercinetica, vive del dinamismo continuamente alimentato da musiche e montaggi frenetici, sequenze apertamente musicali (alcuni dei quali sembrano parodie dei film sportivi anni ’80), colori vividi e piani-sequenza rocamboleschi via via sempre più ridicoli e kitsch, per sviluppo narrativo, per consequenzialità logica, per lo spirito con cui si dovrebbero interpretare gli eventi. La parte di indagine sociale dovrebbe ridursi allo sfruttamento industriale dell’immagine limitando pesantemente il lato umano della cantante in questione, ma nella misura in cui viene affrontato non comunica nulla più di quanto non sia di pubblico dominio e nelle disponibilità di chiunque, anzi si vede ben di peggio già se si presta attenzione a che contratto deve firmare un bimbo-Disney (tanto per rimanere in tema). Sarebbe stato invece molto più interessante spingere sull’acceleratore e provare a a raccontare come magari immagine industriale e realtà umana, a causa di questa rigidità nella messa in scena, finiscano poi per confondersi e mischiarsi l’una con l’altra.
Cosa aspettarsi dalla prossima stagione
Black mirror è in caduta libera, c’è poco da dire. Ormai non è più solo la gestione Netflix a fare da forza frenante, ma anche Charlie Brooker sembra essersi bruciato, le sue ultime tre creazioni mancano di spina dorsale e non si reggono in piedi, trovano precario equilibrio perché hanno uno stile più pop, più colorato e godibile, con un ritmo sostenuto e moderno. L’aver perso per strada quel nucleo cinico e grottesco poi pesa sul giudizio finale, ormai Black mirror non non solo non provoca più, non questiona più, ma non dice sostanzialmente nulla, è vana reiterazione del fantasma degli episodi più rappresentativi. Probabilmente vedremo un’altra terzina rilasciata tra fine autunno e inizio inverno per completare questa quinta mandata di episodi, per la quale non ci resta che sperare in una revisione della struttura delle nuove puntate nella loro interezza, poiché dopo le grandiose iniziali promesse, abbiamo affrontato un’adolescenza problematica (la terza stagione) e una prima età adulta imbarazzante (quarta), e se la maturità proseguirà con lo spirito di questa quinta temporada, Black mirror non potrà che avere la parabola di una meteora.