CONCORSO – Due reporter si intrufolano nel capannone di una fabbrica in cui è appena avvenuta un’esplosione, fra pompieri in affanno e poliziotti che dimenticano di bloccare gli accessi…Uno di loro pagherà con la vita quest’atto temerario. All’altro rimangono i rimorsi e il compito di girare un necrologio filmato sul compagno appena morto.
Togliamoci subito il sassolino dalla scarpa. Questo Breaking News può essere ascritto alla cosiddetta Nuova Onda Romena? E in caso di risposta positiva, l’autrice Iulia Ragina è la prima donna di sicuro talento della ricca nidiata post-Ceausescu che almeno dal 2001 fa parlare di sé nei festival di mezza Europa? Per rispondere con maggiore cognizione di causa, bisognerebbe conoscere meglio l’opera di questa trentacinquenne di Bucarest: questa è infatti la sua opera terza (ma il progetto risale al lontano 2007 e doveva esserne l’esordio), e sul suo curriculum ci sono anche una dozzina di cortometraggi.
Confesso di non avere visto i precedenti suoi lungometraggi a low budget (Love Building e Alt Love Building, 2013 e 2014), per cui la mia risposta per ora può essere solo parziale: se anche come autrice nel suo complesso non fosse ascrivibile a quella nuova ondata, il film in questione di per sé vi può essere ricondotto, ma ne rappresenta una versione, per così dire, non integralista. Ne utilizza infatti in modo non pedissequo alcuni tratti essenziali, ma non imita in maniera derivativa modelli da festival al fine di facilitare (meccanismi di) riconoscimento e riconoscimenti (da parte dei giurati).
Siamo infatti di fronte a un tipo di realismo asciutto e (quasi-)minimalista, in cui silenziosi campi lunghi si alternano a fitti scontri dialogati in campi ristretti e in piano sequenza (o almeno con montaggio molto sobrio); tematicamente si ritrovano qui anche alcuni “classici”, come lo scontro generazionale, la crisi di coscienza dei personaggi di fronte ad una situazione estrema, la ricerca della verità che porta a rivelazioni esistenziali, nonché un’ambientazione contemporanea e dimessa che ancora una volta fa della provincia romena un ricettacolo di piccoli attrezzi di scena veristi e rimasugli di una triste epoca disumanizzante.
Ad ogni modo non si può dire che siamo di fronte ad un film fiacco o derivativo, né, tanto meno, a un plagio o un epigono; in fondo la Rugina ha avuto l’idea di questo soggetto in tempi non sospetti, e fin dal 2007 aveva dunque tutto il diritto di presentarci il dilemma morale del giornalista Alex, messo di fronte alla necessità di violentare la privacy del collega appena morto in nome di una sorta di pettegolo totalitarismo informativo. Visto che era stato originariamente pensato come suo debutto alla regia in un momento non ancora inflazionato, a maggior ragione l’autrice aveva il diritto di ambientarlo con stile secco e calibrato in una Romania contemporanea che le si poneva davanti come “set naturale”, senza per questo doversi porre il problema di risultare l’ultima arrivata (tanto meno lo sarebbe stata dieci anni fa).
E in ultima analisi, finché si faranno film di questo valore, onda o non onda, sarà comunque un bene: è un bene che si dipinga sullo sfondo di un paese ancora poco esplorato ed enigmatico uno scontro generazionale non stereotipato, fra la figlia ribelle di un ex-rocker costretto ad abbandonare i suoi sogni di gloria e il collega sopravvissuto di quest’ultimo, costretto a sua volta a rincorrere una verità inafferrabile lungo le montagne russe di dolore e rabbia dei familiari rimasti a piangere un figlio e un padre. È un bene che, attraverso linee individuali e parziali, si riscostruisca, quasi senza darlo a vedere, un piccolo spaccato della Romania di provincia degli anni Novanta e Zero, dove la musica occidentale, l’arrivo delle prime trasmissioni globalizzate e l’irrisolta zavorra di decenni di grigiore facevano a botte fra di loro, lasciando cicatrici interiori nelle pieghe della classe media del paese.

Se proprio si vuole rintracciare una particolarità “femminile” di questa nuova declinazione di un (ex-)nuovo movimento cinematografico, si potrebbe cercarla nella delicatezza con cui si indagano i meandri dell’intimità familiare, con un viaggio a rebours operato in forza di supporti analogici d’antan e variegati dispositivi di registrazione che restituiscono un mosaico sfaccettato di momenti familiari e fasi evolutive di un rapporto padre-figlia, nonché nella forza autentica di dolce combattente con cui è disegnata l’adolescente Simona, orfana di padre e di modelli comportamentali. E se, ancora, proprio volessimo fare degli inevitabili paralleli (poco meditati, più d’istinto) con autori suoi conterranei, ci verrebbe in mente il Porumboiu di Politist, adjectiv (2009), per l’incaponita insistenza nella “quest” di informazioni e nel raggiungimento di un obiettivo, o certi dialoghi serrati e svolte narrative incentrate sulla psicologia in formazione di una giovane ragazza che potremmo ritrovare in Bacalaureat (2016) di Mungiu, che ci viene ricordato anche per l’imperscrutabilità degli incidenti quotidiani e per l’enigmaticità del mondo femminile adolescenziale. Siamo lontani dunque dai tour de force di Puiu o da certi sperimentalismi di un Adrian Sitaru o di Călin Peter Netzer. Mancano anche il black humour e la riflessione politica diretta di alcuni dei capolavori del “genere nuova onda”.
Cosa rimane, allora? Rimane un racconto morale forte, con incursioni nostalgiche negli anni d’oro della gioventù (e di Ceausescu?…) filtrate dal VHS e dalle foto di rocchettari di periferia, e ancora una sana ma non compiaciuta cattiveria dell’analisi comportamentale, che affonda il coltello nei paradossi disumanizzanti del mondo del lavoro, senza per questo scadere in stereotipi/massimalismi simil-loachiani o in facili allegorie da sindacalismo in pellicola (o in dcp…). Questi di Alex e della piccola punk Simona sono casi umani singoli, che fanno a meno di paraboliche universalizzazioni, ma che si intrecciano in un gioco di rimandi e di riflessi a chiasmo in tutta la loro puntuale concretezza: si veda il finale con pianto liberatorio causato dal riconoscimento nell’altro della propria situazione esistenziale (forse uno dei pochi climax emotivi “classici” della nidiata romena che ci venga in mente così su due piedi). Per Alex la morte non è fisica, ma è quella interiore da cui può risorgere nel momento in cui si accorge di essere uno zombie disumanizzato alla continua ricerca di sangue e notizie fresche, anche a costo di passare sopra i cadaveri e nutrirsi del dolore che si condensa loro attorno.
Ma è illuminante che, al di là di tutte le moderne strumentazioni di ripresa e montaggio qui usate dai reporter, sia proprio il dispositivo vintage dell’immagine analogica (un vecchio video in cui una piccola Simona conversa con il padre che le insegna, guarda caso, Redemption Song) a creare in Alex il corto circuito tecnico ed emotivo, che afferra alla gola il reporter ormai incapace di dialogare con i vivi (si vedano le liti su Skype, altro dispositivo “freddo”, con moglie e figlio, o le varie telefonate inconcludenti). Il tutto, se ci è permesso aggiungere una nota personalissima, condito e sorprendentemente arricchito da certi toni alla Gianni Amelio (si vedano gli abbracci, i silenzi, gli sguardi, le sorprese dei sentimenti). Il che, a parere di chi parla, non può che essere un grande merito aggiuntivo.