Nel 1981 Issei Sagawa, un dottorando presso la Sorbona, uccise e mangiò la sua compagna di studi Renée Hartevelt, colpevole di aver rifiutato le sue avances. Sagawa fu dichiarato incapace di intendere e di volere e deportato in Giappone due anni dopo, ed è vissuto grazie alla notorietà portatagli dal suo crimine, scrivendo romanzi, manga e lavorando in film porno e softcore. Il film racconta la sua vita al giorno d’oggi, focalizzandosi sul suo morboso rapporto con il fratello Jun, che si prende cura di lui da quando Issei ha avuto un ictus.

Con una storia del genere sembra impossibile realizzare un brutto documentario, vero? Ebbene, Paravel e Castaing-Taylor a sorpresa ci riescono, facendosi prendere dalla voglia di realizzare un film d’autore senza averne nè la capacità nè la sensibilità (d’altronde sono due antropologi: è come se David Lynch pretendesse di scrivere un saggio à la Levi-Strauss dall’oggi al domani). Il risultato è un film che presenta tutti i tritissimi tópoi visivi del “regista autoriale dilettante”, dall’intenso e continuo primo piano con dettaglio dei pori e dei punti neri al personaggio in secondo piano sfocato di cui intuiamo solo il contorno; dalle inquadrature sbilenche e asimmetriche a quei colori desaturati che fanno tanto cineforum del cinema indipendente polacco degli anni ’70.

Il tema del cannibalismo, a dispetto delle dichiarazioni di intenti dei registi, viene affrontato con una mancanza di profondità sconcertante, in una sorta di seduta di psicanalisi che vorrebbe metterci faccia a faccia con la banalità del male, ma finisce solo per mettere a dura prova la pazienza dello spettatore. Il tutto condito con un’inutile digressione sul fratello autolesionista, con tanto di primi piani della sega che gli penetra le carni, una madeleine del (pessimo) Moebius di Kim-Ki-Duk, anch’esso inflittoci qui alla Mostra, di cui non sentivamo onestamente il bisogno. Senza dimenticare i video di repertorio che ritraggono l’infanzia dei due fratelli come la famiglia della Mulino Bianco, in un “originalissimo” tentativo di farci riflettere su come i mostri si annidino sotto le spoglie di persone normali.

Caniba è un perfetto esempio di tutto ciò che il cinema non dovrebbe essere: banale, arrogante, senza nulla da dire. Rimane un mistero come abbia potuto essere incluso nel programma della Mostra.