“Chaos” di Sara Fattahi

Caos piatto

chaos

Ennesimo documentario “impegnato” presentato nella sezione Cineasti del Presente, Chaos è il secondo film full length di Sara Fattahi, che sulle orme del precedente Coma (2015) torna a riflettere sulla condizione delle donne siriane, questa volta mettendo, con scarsi risultati, il piede in due scarpe.

Di fronte al conflitto che sta divorando il Paese, le tre donne protagoniste hanno intrapreso strade diverse: la più anziana, che ha perduto il figlio, è rimasta a Damasco chiudendosi nel dolore e nella sete di vendetta; le altre due, giovani, sono riuscite a emigrare all’estero – rispettivamente in Austria e Svezia – ma vivono ancora prigioniere dei ricordi.

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Difficile trattare una questione così delicata, circoscritta e, se dobbiamo dirla tutta, già ampiamente sdoganata sia dal cinema di finzione – Insyriated (2017) – sia da quello documentario – Last Man in Aleppo (2017) –, impostando la propria indagine a partire da testimonianze così scarne e divaganti come quelle delle intervistate. Dei 95 minuti di Chaos infatti pochissimi sono dedicati all’ascolto della viva voce delle vittime, che inevitabilmente non possono che ripetersi: le accomuna una paura che impedisce loro di andare avanti, unita a espedienti – per esempio l’hobby della pittura – con cui esorcizzare il passato.

E quando la materia prima scarseggia, non si può far altro che allungare il brodo cercando di puntare tutto sulla forma. La staticità della macchina da presa, che scientemente tiene in campo solo elementi insignificanti, è una pura velleità dell’autrice, che non riesce a nascondere il vuoto di senso dell’operazione. La sezione di Vienna è praticamente inesistente, mentre quella in Svezia dà adito alle fisime di un soggetto che, per quanto possa valere la giustificazione del trauma, è paranoico e insipido nelle proprie riflessioni.

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Chaos adotta un punto di vista al femminile dietro la promessa di tematizzare l’esilio, ponendolo a confronto con la realtà di chi, a suo rischio e pericolo, non ha voluto o potuto abbandonare la terra natia. Forse consapevole di non essere in grado di dire nulla di nuovo in proposito, Fattahi si nasconde dietro l’intellettualismo e la cattiva prassi dell’artificio, arrivando talvolta a un paio di momenti esteticamente suggestivi ma che portano a chiedersi che genere di film si stia guardando: la Siria è una realtà presto dimenticata, sbiadita nelle rievocazioni delle interessate e non affrontata criticamente; il prodotto nel suo complesso non tenta nemmeno di mettere in discussione le prerogative del mezzo, né cerca di proporre una chiave interpretativa alternativa che viaggi sui binari dell’immagine.

Adagiandosi sugli allori della serietà del tema, Chaos perde l’occasione per uscire dagli schemi di quella che negli ultimi tempi è diventata una vera e propria etichetta, la quale ha in certa misura banalizzato e mercificato la questione siriana fallendo nel suo intento originario: strappare al pietismo sensazionalista dei media una tragedia molto più complessa di quanto sembri. E invece Chaos rientra nel canone a pieno titolo.