Presentato in anteprima mondiale, a chiudere la serata inaugurale è stato Crossroads: One Two Jaga (2018), terzo lungometraggio da regista di Nam Ron, una delle figure più controcorrente della scena cinematografica della Malesia interessato a portare sul grande schermo la realtà sociale trascurata dalle produzioni mainstream del suo Paese.

Come già preannunciato dal titolo, le vite dei personaggi di Crossroads sono destinate a incontrarsi, per non dire scontrarsi. Un poliziotto appena entrato in servizio e il suo collega più smaliziato, una comunità di immigrati indonesiani combattuti tra il restare e il tornare in patria, mentre a loro danno prospera una ristretta cerchia di boss più o meno potenti che tirano le fila della malavita di Kuala Lampur.

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Il film non bada a convenevoli e si apre col primissimo piano del volto sfigurato del novellino Hussein – interpretato da Zahiril Adzim –, al quale la voce fuori campo di una collega notifica l’accusa di omicidio. A partire da questo evento che funge da ignizione attiva per l’attenzione dello spettatore e retroattiva per la catena di eventi, arriviamo a capire che l’atto sconsiderato di Hussein è solo la punta dell’iceberg: sotto, una quotidianità fatta di sfruttamento del lavoro clandestino, di violenza e corruzione, con il beneplacito della sedicente classe dirigente.

La tensione, più che dall’esibizione di determinati eventi – peraltro non così efferati se comparati ai film di genere che spettacolarizzano il mondo della criminalità organizzata –, scaturisce dal montaggio, che procede a balzi avanti e indietro lungo l’asse temporale lasciando a chi guarda il compito di ricostruire il mosaico – in un modo forse troppo accessibile ma comunque stimolante. A far da collante tra i vari episodi, un tassello narrativo fuori posto – un numero telefonico gravido di promesse di verità, che alla fine farà crollare il castello di carte Crossroads – e la fotografia curata da Mohd Helmi Yusof, basata su un tono uniforme di luce che fatica a farsi strada anche in pieno giorno, riflesso del degrado della città e di chi la abita.

Ciò detto, nonostante il lodevole intento di documentazione, Nam Rom non riesce a dare un taglio sociologico o realistico alla propria opera, ricorrendo a canoni semplificati propri della più tradizionale scrittura cinematografica: il giovane agente insofferente alla corruzione alla Serpico, la tripletta di padrini di diversa etnia, la poesia insita nella tragedia degli umili che per certi versi riporta al Neorealismo, sono tutti schemi già codificati e che allontanano la pellicola dalla sua presunta missione. Nello stesso senso vanno intesi gli inserti dialogici un po’ pretestuosi, come quello sulla persecuzione dei Rohingya o sulla vera natura del crimine, e il lieto fine, in cui la scoperta dell’intestatario del numero di cui sopra porta tutti i cattivi a finire in galera e i buoni – eccezion fatta per due personaggi la cui pertinenza con la vicenda non appare chiara – a trionfare.

È il caso di dire che l’abito non fa il monaco e che per quanto si tratti di una produzione a tutti gli effetti innovativa, soprattutto per il coinvolgimento di maestranze indonesiane nel cast – tra cui gli attori Asmara Abigail e Ario Bayu –, Crossroads: One Two Jaga si mostra molto più convenzionale di quanto le premesse lasciassero supporre, sia dal punto di vista estetico che degli spunti di riflessione. Un film di denuncia tra virgolette.