La Semaine de la critique locarnese rimane sempre fedele al genere documentario come fil rouge per unire le proiezioni dell’anno, almeno quest’anno sembra esserci qualche differenza sostanziale allargando le maglie dell’anno scorsoDani ludila non contravviene alle regole ma almeno rappresenta un’apertura, sviluppandosi di fatto secondo il crisma della fiction, in modo confusionario anche se curioso.

Locarno 71 pecca degli stessi difetti dell’edizione precedente, per quanto concerne la categoria. E dopo un deludente #Female pleasure, è il turno di Nenadić provare a sorprendere pubblico e giuria: lo fa con un doc semplice semplice che segue, condensandole in un lasso di tempo molto breve (meno di un’ora e un quarto) le vite di Maja e Mladen, due persone comuni sotto cura psichiatrica che devono confrontarsi con una società che li rigetta e con un sistema sanitario più malato degli individui che dovrebbe aiutare.

Partendo da una posizione sostanzialmente antipsichiatrica, Nenadić delinea un film lineare e compatto sull’incapacità strutturale da parte della sanità croata di gestire l’ambito della malattie mentali e, più in generale, sugli ancora forti limiti della psichiatria applicata. Maja e Mladen sono due persone malate sì, e il film s’impernia sulle loro abitudini, le loro giornate scandite dai farmaci che devono prendere e dai controlli a cui devono sottoporsi, salvo poi cercare di vivere facendo capo a queste delimitazioni, finendo per diventare organismi precari senza la possibilità di progettare una vita. Il sistema medico li tratta, nell’opinione del regista, come cubi di Rubik da sistemare e riordinare, al di là delle conseguenze, cioè li cura, non li guarisce.

Le riprese vedono i due conoscersi e poi separarsi, ognuno dovendo badare alla propria vita, con Maja che viene affrontata più nel contesto prettamente medico e farmaceutico, e Mladen che, seguito anche nella vicissitudini familiari, si fa metonimia della “questione sociale” della psichiatria. In primo luogo il venire oggettivati li rende incapaci di relazionarsi con il mondo esterno in una modalità che li veda consapevoli di sé, e inoltre il venire considerati altro – in un ritorno al periodo pre-’75 – li aliena maggiormente fino ai margini. Nenadić però per affrontare una questione del genere sceglie il peggiore dei modi, limitandosi a quello che sembra, più che cinema, un resoconto giornalistico. In parte è il regista stesso che segue i personaggi con la mdp a mano, più spesso (diciamo per due terzi?) invece il materiale finale è ottenuto da riprese amatoriali gestite con una videocamera non professionale che i due protagonisti si portano appresso, rivelando una regia sostanzialmente inesistente, un montaggio come ultima fonte di controllo sul film e un’elaborazione tecnica nulla.

Scelta che penalizza l’intera trattazione: è francamente impensabile anche solo concepire di poter realizzare un’opera con una connotazione ideologica precisa come questa senza affrontare il problema del rapporto psichiatrica-case farmaceutiche, nozioni base sul funzionamento della sanità croata, o lo scientismo dell’epoca contemporanea, giusto per fare un balzo in più. Dare da girare frammenti della propria vita a un paio di persone malate costituisce solo un pessimo esempio di indagine documentaria, al di là del feticismo fanciullesco per il realismo a tutti i costi che tanto piace, e non rappresenta nessuna presa di posizione culturale perché il filmato non è tale da rendere possibile né un’esemplificazione né tanto meno uno sguardo generale o, al limite estremo, settoriale, sulla vicenda, bensì appena uno sprazzo singolare di un fenomeno di cui viene mostrata, al netto delle, peraltro probabilissime, convergenze di opinioni, solo ignoranza.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci qui il tuo commento!
Inserisci qui il tuo nome