Ci sono spettacoli che nascono imprescindibili, anche oltre il pensiero e la volontà di chi li crea. Un esempio di questa categoria piuttosto rara è Danzando con il mostro, di e con Serena Balivo, Mariano Dammacco e Roberto Latini, che ha avuto un’applauditissima anteprima a Castrovillari nell’ambito della ventiduesima edizione di Primavera dei Teatri.
Il modo in cui si è introdotti all’interno del racconto è molto singolare: una lingua sconosciuta, inventata, prontamente tradotta come nelle conferenze stampa televisive, ci fa capire che chi parla non fa parte della compagine umana (si cita soltanto la traduzione in italiano): «Care mostre e cari mostri presenti in sala, è bello vedere la platea così gremita. È una vera fortuna che i vostri umani di riferimento abbiano scelto di portarvi a teatro questa sera per il nostro Danzando con l’umano. È bello ritrovarsi tutti insieme e vi prego di ringraziare i vostri umani da parte mia a nome di tutta la nostra comunità».
Il corpo d’attore di Serena Balivo e Roberto Latini si staglia in una scena semplice e complicata insieme, in cui i due bravissimi interpreti si muoveranno in lungo e in largo per poco più di un’ora di emozionantissimo teatro. Sul fondo Mariano Dammacco, per una volta in scena, porta una maschera che sembra evocare le fattezze di Pulcinella, o di un qualche altro retaggio arcaico, ma è ambigua come tutto il resto.
Infatti nascono subito due domande essenziali. La prima è: chi è che parla, o – meglio – chi sono questi mostri, che bevono incessantemente dai loro calici il vino (si suppone) delle molte bottiglie di cui è disseminato il palcoscenico? Sembrano degli alter ego, immutabili e immortali. Forse delle emanazioni della mente dell’autore del testo, Dammacco (che in parte lo conferma a spettacolo terminato). O ancora, viene da pensare, i molti se stessi che tutti abbiamo incorporati nelle complessità che determinano ogni vissuto. Fatto sta che sono parecchio vitali, questi mostri, nella lentezza studiata del loro eloquio e nel loro appartenere, probabilmente, a un universo parallelo e quasi sicuramente infernale.
La seconda domanda, che nasce insieme alla prima, è: di che cosa ci parlano, queste figure dinoccolate ed evanescenti? La scrittura di Dammacco, come è noto, viaggia sempre in bilico e con grande perizia tra la poesia e la narrazione, un sentiero stretto e impervio in cui lui non perde mai la direzione. E questi due non-personaggi, declamando come non fossero lì, richiamano, anzi riaccendono il substrato di ognuno, le relazioni, le paure, il dolore, la morte, il passato… Con un’ironia costante che non impone mai il distacco, e invece trascina all’interno del racconto (o, appunto, del non-racconto). Si assiste a quadri slegati eppure indissolubili in cui la vita appare considerata da un’altra angolazione, senza giudizi o moralismi. Si ride da morire, e altrettanto si piange, come non capita (almeno a chi scrive) di fare da tempo a teatro. Un piccolo capolavoro. Piccolo nel senso che non appesantisce ma invece evoca, sostanzia e fa rinascere.
