“Dio si prende troppo tempo per rispondere alle nostre preghiere” afferma, neanche troppo ironicamente, una fedele congolese.
170 anni fa Carl Marx e Friedrich Engels scrivevano: “…oppressori e oppressi sono sempre stati in conflitto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta , a volte occulta, a volte palese, una lotta che si è sempre conclusa o con una trasformazione dell’intera società o con la rovina delle classi in lotta”. Nella Storia contemporanea, il Congo è un lampante esempio di comune rovina delle classi in lotta. Paese del Quarto mondo per antonomasia.
È cosi che si presenta Das Kongo Tribunal, ultima fatica dello scrittore e regista teatrale e cinematografico di fama internazionale Milo Rau.
L’artista svizzero inscena un processo con una corte internazionale volta a portare alla luce una vicenda tanto drammatica quanto lontana dalla cognizione mediatica nord-occidentale. Si invita l’osservatore a esprimere una sentenza tramite l’avvicendarsi di interviste e interventi che tratteggiano superbamente il contesto sociale, politico ed economico del Paese africano. Sono quindi gli spettatori i veri giurati del tribunale.
Ma tra milizie ribelli autrici di stupri di massa, governi tiranneggianti, polizia squadrista ed esercito razziatore non è difficile trovare l’innocenza, il popolo proletario, gli oppressi sfruttati dalle grandi multinazionali metallurgiche (come la canadese Banro).
La guerra (mondiale) imperversa da 20 anni, ha provocato finora 6 milioni di vittime, non accenna a placarsi e i timidi interventi dell’ONU boicottano il fine pacifico del Congo.
Un documentario originale e toccante che aprirà al suo autore le porte dei festival internazionali più prestigiosi.
Recensione di Andrea Viggiano
Il regista cinematografico e teatrale, Milo Rau riesce anche questa volta a metterci dinanzi a performance estreme con Das Kongo tribunal, film-documentario dove riunisce, in una simulata aula di tribunale analisti, vittime e “carnefici” del conflitto che da 20 anni si protrae nella regione dei Grandi Laghi in Congo.
Le vere persone implicate, dunque, sono chiamate ad essere “personaggi” ed a testimoniare in un finto processo in cui la divaricazione fra forma e contenuto diviene fattore portante della performance. Le scene del processo sono inframezzate da riprese della preparazione dello stesso e da pezzi di reportage ripresi direttamente sui luoghi degli eventi. Le riprese delle verdeggianti colline della zona entrano in contrasto con le crude immagini delle vittime, che l’autore non ha paura di mostrare per come realmente sono, infatti l’ obiettivo dichiarato dell’opera è quello di portare a galla la verità, essendo questo processo di nessun valore in termini giuridici. La visione del film porta agli occhi le contraddizioni degli avvenimenti in un paese in cui la ricchezza alimenta il conflitto e lo sfruttamento invece di essere strumento utile al paese ed ai suoi cittadini. L’arte riesce ad arrivare dove la politica ha fallito.
Recensione di Francesca Cordioli