Come le altre (non troppe) pellicole di provenienza turca presenti a questo 71esimo Locarno Festival, nemmeno Dead horse nebula riesce a convincere troppo. Con buona pace delle politiche che hanno incrementato il budget per lo sviluppo culturale in ambito cinematografico di quel che resta dell’Impero Ottomano, né pellicole come questa né come Yara, hanno qualche possibilità di rimanere impresse, attestandosi invece su un livello decisamente basso.

Hay, giovanissimo, assiste alla morte di un cavallo e al successivo smembramento del corpo da parte dei suoi genitori per sbarazzarsene, tenendo le parti utili e buttando il resto. Inaspettatamente sensibile per il contesto in cui si è trovato a nascere a a vivere, lo Hay adolescente non riuscirà a dimenticare l’esperienza traumatica vissuta quando aveva sette anni, e ne rimane profondamente colpito e condizionato tutt’oggi, spingendolo a riflessioni sui massimi sistemi che poi dovrebbero essere la vera anima del film, laddove il cavallo, il rituale e il flashback sono solo che elementi portanti ma subordinati. Dead horse nebula però, nei suoi tentativi di mettere in scena una riflessione vitalistica su uomo e natura, su giorno e notte e ciclo della terra, si perde nella sua vena immaginifica senza corrispondere un’adeguata risposta visiva, assomigliando più spesso a un documentario che al cinema contemplativo che di fatto finisce per scimmiottare.

È naïf. Punto. Aktaş manca di un’idea univoca, centrata, da esprimere. Il suo film è infantile. Ne perde il controllo nel momento in cui si rivolge a una pluralità infinita di suggestioni senza riuscire a tenerle imbrigliate in un concetto, o almeno in un sistema ben delineato. Ondeggiando in questo modo il regista turco – alle prime armi, primissime armi – non ricava nulla dalla sua mdp, limitandosi a uno sguardo vacuo sul mondo che ci vuole raccontare. Afono, sia nei confronti della parte visionaria (non basta riprendere le stelle in modo stocastico, ma ci vuole criterio, anche se non così evidente), sia per quanto pertiene alla sfera concettuale, estremamente povera. Il percorso di Hay sembra essere una brutta copia di quella del personaggio senza nome di Max Brebant in Evolution, splendido film di Lucile Hadzihalilovic, volendolo a tutti i costi trovare un modo per sovrapporre, far combaciare due rami di una stesso concetto, senza però aver fissato prima quest’ultima idea in un contesto culturale e/o ideologico. L’ispirazione è palese, anche se dirottata in chiave rurale, ma la distanza da colmare ancora è abissale.

In conclusione, si sta trattando di un film povero, quando si parla di Dead horse nebula, un continuo “vorrei ma non sono in grado” con l’unico risultato di degenerare in quel ridicolo involontario, in quella pretenziosità che spesso viene invece attribuita, a torto (marcio) a tutt’altra serie di opere che con questa nomea vengono indebitamente affondate in un contesto molto chiaro di critica all’intellettualismo – termine generico e infatti usato quasi sempre a sproposito – che però invece sembra dimostarsi in alcuni casi cieca come la Fortuna, tant’è che questo esordio, senza se e senza ma, negativo, di Aktaş può vantare già un accordo distributivo. In un 71esimo Locarno Festival non particolarmente brillante per quanto concerne le opere prime – chi scrive ritiene che sia ragionevole credere che lo Swatch Award riserverà più di qualche imbarazzo – certamente non suscita tutto questo montare di indignazione, però si tratta sempre di un film senza un’identità precisa che lascia poco o niente, sovrapponendosi integralmente con quel cavallo dei primi secondi di pellicola: viene quasi da volerlo graziare per non farlo soffrire.