Tra i fratelli Coen, Lanthimos, Tsukamoto e chi più ne ha più ne metta, in questa ricchissima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il rischio principale è quello di dimenticarsi delle sezioni collaterali e dei film più “piccoli” (o almeno meno attesi). La più recente di queste sezioni è un piccolo vanto della kermesse veneziana, vale a dire la Biennale College, che raccoglie tre opere prime co-prodotte dallo stesso ente della Biennale. Il primo film di questa settima edizione della fortunata iniziativa è il drammatico Deva, firmato dalla filmmaker ungherese Petra Szöcs, al suo primo lungometraggio.
In appena un’ora e venti di durata, Deva racconta il difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza della sua protagonista, l’orfana ungherese Kato, ospite di un fatiscente orfanatroio nella desolata città romena di Deva in cui, tra un corto circuito e un’invasione di vipere nel dormitorio, arriva una nuova volontaria, la giovane e simpatica Bogi, a turbare la già confusa protagonista, alla disperata ricerca di una figura materna di riferimento. La prima sensazione appena usciti dalla sala è che la premessa e l’idea generale di questa opera prima poteva essere adattata in un cortometraggio, idea che probabilmente era passata anche per la testa dell’autrice della pellicola data la sua breve durata.
E questo non perchè Deva sia un film privo di contenuti o sconclusionato, dato che il tema della crisi pre-adolescenziale e della mancanza di punti fermi viene comunque trattato, ma perchè ad abbondare sono scene silenziose e pressochè vuote non tanto per potervi inserire un qualche contenuto simbolico ma solo nel tentativo di creare un momento suggestivo (tentativo non sempre riuscito). Una scelta azzeccata è sicuramente l’idea di raccontare questa ossessione della protagonista per le foto, per i ritratti, per farsi pettinare, far bella e ritrarre, nel tentativo di colmare quel vuoto lasciato dall’assenza di una figura genitoriale. A salvarsi è anche il lavoro che la regista fa con la particolarissima protagonista Csengelle Nagy, albina e strabica, che la Szöcz decide di ritrarre con un ampio uso di primissimi piani su quegli occhi chiarissimi che vanno dapertutta con velocità, come a comunicare l’agitazione di un personaggio al limite della confusione.
Per il resto la pellicola è riempita con momenti eccessivamente lunghi, come una pressochè inutile digressione sul personaggio della direttrice dell’orfanatrofio, o le liti con presidi e insegnanti. Il film ha insomma i suoi alti e bassi, ma tenendo conto che si tratta di unopera prima in cui tutto sommato si possono riconoscere le doti (almeno dal punto di visa tecnico) della giovane autrice, potrebbe essere un buon punto di partenza per una carriera in ascesa, che poi è l’obiettivo e la speranza del progetto Biennale College.