Da dove iniziare per descrivere l’ultimo film di Reygadas? Operazione difficile, tenendo conto che iniziare prevede un tempo, ovvero una serie (almeno due) di termini; ma in Nuestro Tiempo non c’è nulla di tutto ciò. Per l’ennesima volta l’autore messicano non lesina sul lavoro di manipolazione del tempo, ne destruttura le regole formali e quelle registiche, amplifica l’uso della tecnica cinematografica – oramai siamo dal lato opposto del percorso avviato con Japón ma non serve guardarsi indietro per rivederne lo spirito – narrativa inclusa: la narrativa è una tecnica cinematografica per Reygadas, al pari di un lavoro sulle lenti per la gestione della luce o di un effetto speciale.
Proprio da questo elemento si costruisce Nuestro Tiempo, che esplora la tensione oltre la narrazione e oltre la meta-narrazione. Il primo livello l’aveva scandagliato e trasceso con il dittico Batalla en el cielo e Stellet licht, mentre ora Reygadas procede oltre, continuando quella sorta di percorso filmico nella sua solita crasi di mastodontica complessità concettuale, lavoro sul mezzo come sorgente e sfocio di ogni essenziale senso cinematografico, e cinema contemplativo come negazione della trascendenza. L’opera quinta del maestro capitalino non procede perché il suo percorso narrativo (ergo trascendente) è tale nella sua negazione, si vivifica nel momento in cui il fattivo si differenzia dal non-fattuale e il l’inattivo s’espande fino a convergere con il fattuale. Al di là di questa struttura chiasmica verbosamente pretenziosa a descriversi, il punto è che la narrazione perde d’importanza quando inizia a porsi come il fulcro del film di pari passo al vivere in un eterno presente (eredità di Post tenebras lux) della visione che si fa autentica dimensione (narrativa) negando più volte le forme del cinema contemplativo e contemporaneamente in questa negazione riaffermandone l’essenza. La lotta quindi è una dinamica meta-testuale da trascendenza e immanenza, spuria e corrotta, sporca, orribile, come è l’azione del filmare.
In una delle scene più prorompenti è proprio lo stesso Reygadas a illustrare il concetto al figlio. “Sto facendo una cosa orribile”, “Cosa? Puoi dirmelo papà”, “Te la dirò quando avrò finito di farla”, nello stesso momento in cui si spegne la luce, ma non la mdp. Non c’è luce, non c’è possibilità di riprendere, ma nel cinema reygadasiano conta l’azione stessa della macchina, non tanto quello che viene messo in scena: è la macchina stessa che riprendendo fa cinema, e in questo modo la sua azione è violenta, orribile, perché nega una cosa, un fatto e ne afferma un altro, che però è cinema lo stesso (per sottrazione, come Stellet licht ricorda sempre) e in egual modo va considerato. La narrazione è un attributo con cui codificare un insieme di immagini in questo tipo di pensiero, una caratteristica successiva con cui si connota il tempo cinematografico. Ma il tiempo è nuestro, cioè in comunione nell’omonimo film, perché il tempo di Reygadas è squisitamente filmico, e in quanto tale non ha passato, presente o futuro, viene spezzata la catena dei fatti come causa ed effetto. Non a caso la finta luce naturale che invade il film e cambia a ogni movimento di macchina è frutto di quella lente allargata, di uno scope “riscaldato” che permette un’elaborazione ai limiti della fantascienza per quanto riguarda i colori. Nella fattispecie basta un piccola rotazione in una direzione o in un’altra per cambiare effetto cromatico, e quindi gli ambienti passano dalla mattina alla sera, dall’alba alla notte più nera perché soluzione di continuità non esiste in film così. Il tempo non è una misura.
Si potrebbe quasi parlare di continuum spaziotemporale collassato su se stesso, prendendo il linguaggio in prestito proprio dalla fantascienza, già che ci siamo. Ma quella dell’opera in questione è una multidimensionalità dove la successione di eventi non esiste, non ha luogo poiché crolla nel mondo pre-narrativo qui concepito anche la dicotomia necessità-contingenza (che poi si porta dietro anche possibile e impossibile). Venendo al dunque, la disamina della narrazione e della narratività qui assume un carattere grottesco. Reygadas è sempre stato un regista capace di ignorare la tecnica dell’intreccio – o meglio, ne faceva scientemente a meno – quindi perché dopo quattro film recuperare anche quell’aspetto, già trattato nella sua pletora di concetti?
Reygadas viaggia su due fronti ben distinti, paralleli ma non tanto convergenti quanto originati dallo stesso punto. Il punto originario, il punto immediato. Parte narrativa e non sono le due metà simboliche che l’autore messicano mette l’una contro l’altra nel tentativo di rappresentare questo punto, di trovarlo nella manifestazione cinematografica. Questa lotta che definisce entrambe le parti tramite opposizione, in primo luogo è un mescolarsi ostile di trascendenza e immanenza, come si diceva prima, successivamente invece è un atto permesso dalla concettualizzazione che viene – adesso sì, temporalmente, dopo – effettuata dalla mente umana (ogni riferimento al diavolo munito di cassetta di PTL degli attrezzi è puramente casuale), cioè dipende interamente dall’atto del filmare, dalla violenza che fa a pezzi un qualcosa di totale. Totale è il mondo, il Maxhumain è il primo pensiero, cioè la presa di coscienza – a sua volta procedimento parziale, astraente – del non poter cogliere la totalità. Il cinema è un atto di forza, come l’incornata di uno dei tri della locandina e del ranch, che tenta di mettersi contro questo procedimento astratto e nel farlo lo rende tale, e rende analogo a se stesso. Nuestro tiempo è una raffigurazione (inevitabilmente connessa da questo punto di vista a Batalla en el cielo) dell’atto che invece sta prima di tutto questo, cioè quella visione attiva, intimamente decisionale, del cinema come mezzo-cinema: tutto il resto viene dopo perché questo cinema è una rappresentazione che tende all’originario di cui sopra perfettamente consapevole di non essere in grado di coglierlo con le proprie forme, figurarsi di raggiungerlo.
Quindi non si può non trattare di una ricerca di cinema immanente – quello che in generale viene definito contemplativo – senza intraprendere un percorso trascendente che neghi e affermi allo stesso tempo se stesso e l’altra sua parte, poiché in fondo di parti si tratta, non di tutto, ed esse si definiscono come un’assoluta impossibilità di negarsi definitivamente in un prima o in un poi. Negazione e morte, separazione e morte, ecco lo formula usata dal nostro per calarci in questa logica solo apparentemente nichilistica. Ogni relazione nel film si dà frazionata, cioè pur come fatto che esiste solo a partire dalla pluralità qui si manifesta per singole parti isolate: la moglie fedifraga nei suoi giochi d’alcova è sempre da sola, lo spasimante, o gli spasimanti, non è/sono mai in vista, si vede un corpo solo e il suo riflesso allo specchio, perché la natura della relazione è definire le singole parti. In questo mondo folle cioè – folle perché filmico, perché non soggetto ai principi logici – il due viene prima dell’uno. Il cinema, anzi i film di Reygadas vanno in questa luce letti come restituzioni sincere di questo viluppo inestricabile.
La complessità ridondante della narrazione – questo continuo indugiare sulla fine e non fine della liason con l’amante Phil, ad esempio, o la ripetitività con cui si svolgono alcuni dialoghi o azioni – è una palese e ulteriore sottolineatura di questo sistema. I movimenti di macchina ribaditi e insistenti ne mettono in scena lo sforzo, cioè i tentativi strumentali di uscire dalla relazione quando non è possibile portare a termine un progetto simile perché senza relazione crolla tutto. L’allegoria da sempre centellinata da Reygdas qui si prende uno spazio un po’ più importante, rappresentando lo snodo fondante. Juan, il Reygadas personaggio, è un poeta, crea immagini da partire da segni, così come il regista (l’accostamento è parecchio inflazionato infatti). E in effetti lui è e rimane il regista del film, sua moglie è il suo mondo, il suo cinema: il cinema. Sullo stereotipo della possessività viene imbastita la contraddizione fondamentale di cui sopra, da un lato un Juan che vorrebbe avere la moglie tutta per sé (come di solito si giura) ma non può, e nonostante tutto quello che dice, cioè di accettare la situazione, è chiaro come non sia in grado, in qualità di soggetto pensante, di venire a patti con i fatti perché Juan/Reygadas è l’ambizione, la tensione irrealizzabile verso la totalità, verso la rappresentazione capace di ottenerla (non a caso fa il regista, no?) e sua moglie è l’inarrestabile impulso verso l’altro, verso un lido sempre più lontano che non può essere fedele in quanto è, banalmente, allegoria del cinema. In sé porta sia quel carattere trascendente che soffia nella vita quell’ideale di pienezza fissa, di perfezione, nonostante la trivialità con cui anch’essa (il cinema è un atto e gli atti hanno un’ambizione, o quantomeno, per l’appunto, una tensione, in questo mondo) cerca di fuggire il suo ruolo, che però è tale anche in virtù dei percorsi di allontanamento da esso: negare è comprovare.
Questo è il motivo per cui un po’ tutti gli altri personaggi continuano a ripetere che Juan ed Ester sono una bella coppia, ovverosia sono inscindibili ai loro occhi nonostante tutto; perché si definiscono l’uno con l’altra. Nessuno dei due può annullare la relazione che unisce i diretti interessati nel momento in cui è lo stesso essere-relati che comporta la consapevolezza di essere due e il pensiero, inattuabile, di risolvere la situazione. Non a caso le litigate avvengono rigorosamente in spazi vuoti, orfani di riferimenti specifici, e anche della coppia stessa talvolta, come a suggellare l‘originarietà intrinseca del rapporto – perpetuato visivamente dai figli che in questa sorta di temporalità confusa convergono con i loro genitori e fanno da primo (anche letteralmente) espediente narrativo. Un cinema, cioè la moglie, potentissimo/a può essere tutto, può portare alla realtà ogni singola cosa, ma non può sfuggire al fatto di essere cinema, pena la perdita di questa potenza e conseguente annullamento; viceversa il regista è sempre tendente verso questa forma di controllo, mai esercitabile integralmente sul mezzo, e finisce per diventare invisibile, pedina delle dinamiche impostate a cui sta facendo riferimento. Ovvero il mettersi in gioco in questi termini – e il regista eccome se si mette sempre in gioco, qui Reygadas si limita a esplicitarlo narrativamente – provoca una sorta di rassegnazione autonoma alla tensione iniziale. Ancora una volta non a caso il personaggio che per primo definisce Juan poeta non si vede mai e porta lo stesso nome del nostro, Carlos: l’intera famiglia di Reygadas è se stessa, dal medesimo regista fino alla moglie Natalia Lòpez, ai figli. Non è cinema-verità, è una verità-perché-cinema.
Juan a questo punto è un poeta che non fa poesia, mai, né tanto meno si presenta agli eventi e se va in TV non ci viene mostrato, perché nel finale del film, dove si fa riferimento a quest’ultimo elemento, è evidente che è già filtrata la supremazia del visivo sul narrato, che è una sorta di post-produzione dunque. Reygadas vede la narrazione come un dotare le immagini di senso, una caratteristica che obiettivamente non hanno, al pari del mixaggio sonoro o chissà che altro. Il visivo dispone dunque della supremazia, e il poeta non è un poeta, d’accordo. Il poeta non è nemmeno regista quindi poiché non lo vediamo come tale, nelle sue funzioni, ma come semplice persona. Ovviamente prima dell’artista viene la persona (il fatto di essersi calato anche davanti alla mdp lo rende ancor più palese) ed essa, come accennato prima, nasce dispersa nella complessità del mondo e da esso trae ispirazione, anche lo stimolo a fare cinema. Come ogni persona Juan/Reygadas sente il richiamo della realtà, cioè è attratto magneticamente dal suo ranch, cioè quella realtà delle cose che determina le astrazioni (come il cinema, e il cinema reygadasiano è proprio quella che fa cinema della sua stessa intima natura) e persino lo spettatore che è a sua volta disperso nella complessità del mondo-film deve ricordarsene, fattore ben portato in scena dal continuo e ininterrotto muggire delle vacche in sottofondo. Questo espediente non differisce nemmeno troppo dall’occhio-macchina di Post tenebras lux, solo che può tranquillamente passare in secondo piano ormai e quindi essere relegato al mixaggio audio, subordinato sempre al visivo.
A ogni modo Reygadas non si comunque problemi a palesare la finzione filmica, anzi verrebbe da dare per scontato un elemento del genere. Interessante è però come lo fa, cioè con un piglio quasi ironico. In tre occasioni l’audio è monopolizzato dal voice-over della figlia più piccola che racconta la vicenda da un punto di vista psicologistico, palesando l’aspetto narrativo, soppiantando l’immagine con il suono, invece. La bruttura, le forzature della tecnica narratologica (i VO ne sono l’esempio) per Reygadas sono esattamente queste, una voce ingenua che ci dice didascalicamente cosa pensare, nonostante la macchina comunichi l’esatto opposto: è così quando Juan va a trovare l’amico in punto di morte (che è un regista melanconicamente rassegnato alla morte), è così quando la coppia litiga seriamente per la prima volta (cioè inizia il film vero e proprio), ed è così soprattutto nella scena del garage. Da esso vengono fuori personaggi che erano da tutt’altra parte e ci entrano altre figure non per andare in un luogo preciso, ma solo per uscire di scena. Quando la porta si apre sufficientemente intravediamo le figure di un pubblico seduto, forse un teatro, quel teatro dove si consuma l’incipit dell’esasperazione del mezzo in questa fase iniziale di film, ribadendo sempre la necessaria presenza dello spettatore perché anche lui fa parte del processo di relazione e negazione, ed è posizionato alla fine di questo percorso (conclusosi poi con quel focus di primi piani sulle componenti meccaniche della macchina che insistevano sulla fisicità e sulla tecnologia del filmare, un atto intrinsecamente calcolato e quindi artificioso) perché è il fruitore ultimo nel senso che ne permette la realtà. Il garage dà sul cinema, cioè sullo spettatore. Il suo occhio è quello più importante, e anche se si perde, si adatta al cinema, lo fa suo, come ci ricorda quella meravigliosa soggettiva dall’aereo che prima è un campo totale d’accompagnamento all’ultimo voice-over, da considerarsi mera estetizzazione che con la panoramica passa quasi a un livello extra-diegetico, e poi, appunto, senza tagli di montaggio, diventa una soggettiva dal carrello di un aeroplano, passando nell’ambito del diegetico perché siamo nella realtà delle cose di nuovo, nella narrazione più materiale del film. L’occhio come condizione di possibilità, oltre rispetto alle necessità logiche, del cinema come passaggio da una realtà a un’altra, come un solido tenere assieme una serie di fattori contrastanti fra loro che, nel riflesso compatto, vanno a formare il vero film.
La nascita, cioè l’immediato originario, un pre-temporale, ecco la dimensione che Reygadas vuole mettere in scena, uno spazio (rigorosamente deformato verso i lati per rimandare in teoria alla visione umana per natura schiacciata perifericamente, proprio in opposizione all’eterno presente slegato del capolavoro del 2012 più volte citato) che sia la cifra dell’impossibilità di determinare l’origine e al contempo dell’inevitabile anelito verso la stessa; e questa cifra è data dalla coincidenza (e dal lento processo che ne provoca lo scontro) del concetto di nascita con l’impossibilità di coglierlo in maniera definitiva, cioè la nascita originaria, il venire ad essere (meglio, spogliato di ogni riferimento biologistico) è il suo stesso processo errante di ricerca. C’è quindi una componente decisionale in tutto questo, la stessa concezione del cinema reygadasiano è tangibile proprio quando affrontata a partire da questi termini. Juan nasce spiritualmente nel ranch con sua moglie (“siete sempre stati assieme”) e la sua nascita è da vedere non più come un momento ma nella figura di un processo infinito che si rende manifesto di volta in volta con formazioni differenti. La sua nascita sono i tori, sono le discussioni sboccate con i mandriani, sono gli scontri con la moglie, l’inutile small talk in inglese senza motivo, tutto già determinato ma non nel momento in cui tutto ciò diventa cinema, ecco che entra in gioco l’atto decisionale vero e proprio.
I benedetti tori in questo caso stanno, pur nella loro semplicità di bestie, di cose, alla base di tutto, sono ciò che erano i fiumi per la prima edificazione umana, l’elemento sì inanimato (vengono trattati senza rimorsi come strumenti) ma in quanto naturale, non umanamente – e umanisticamente – dominabile, consistono anche in un limite che segna la possibilità di fare qualcosa attraverso l’impossibilità di fare altro, espressa nel caso come un divieto, rappresentata dal pericolo che incarnano, mortifero eppure vitale nella forza che incarnano, di fattività poderosa e potente (e di cui questi animali sono anche tradizionalmente simbolo in America Latina). Negli ultimi minuti del film infatti sono loro i protagonisti, quando si arriva al cuore delle cose e compare anche quella nebbia che fa artificiosamente da filtro per riportare il processo poc’anzi accennato al suo compimento, al suo ri-cominciamento: in definitiva, la sua rinascita, in un ciclo vitale che comprende anche i tori. Ne vediamo risuscitare uno alla fine del film l’attimo dopo la morte causata dalla caduta da un dirupo provocata da un altro toro ancora. La vita di Nuestro tiempo è errante come la sua origine, e viaggia per negazioni, cioè afferma la vita con quella che sembra un’immagine finale di morte. L’ultima inquadratura infatti, con il toro che pascola, non è proprio un segnale positivo, una sconfitta della morte, anzi, ne è la nobilitazione. La morte è infatti il concetto stesso che codifica l’esistenza del tempo così come se ne è discusso finora, e alla vita in questo modo è accostato il filmico in sé, l’atto di girare come presa di coscienza del ciclo di negazioni.
Non è chiaramente un film facile, questo è evidente, ma sul versante opposto non ha senso aspettarsi da Reygadas nulla di diverso. Che allontani una parte di spettatori da questo tipo di cinema tout court? Probabile, com’è altrettanto probabile che faccia cinema teorico, concettuale, a livello differente da tutti gli altri artisti, e per certi versi magari anche superiore – lo diciamo sottovoce – ma questo è Reygadas, questo è il suo cinema, e il fatto che Venezia sia riuscita a strapparlo a Cannes è un risultato di cui andare fieri per anni. Un regista unico, particolare che fa un cinema unico e particolare, capace, una volta che si è penetrato il suo orizzonte di pensiero, di andare ampiamente oltre il film in sé, e raggiunge livelli di raffinazione, di rappresentazione della realtà imprescindibile per chiunque nutra interesse nel cinema, quello vero. Al pari degli altri quattro film, segnando in un modo o nell’altro, in un’idea, al contempo la chiusura di ciclo (con un film sul tema della circolarità) e l’apertura di un altra fase che smaniamo di vedere, merita perfettamente la definizione di capolavoro, e, anche se Post tenebras lux rimane impareggiabile da questo punto di vista e Japón è un esordio così fulminante da meritare davvero la definizione autentica di “unico”, Nuestro tiempo si colloca nello stesso pantheon. Non serve nemmeno specificare che, della 75esima Mostra del Cinema di Venezia, è il migliore, in assoluto, a mani basse. Nuestro tiempo, di Carlos Reygadas.