Il titolo accenna alla teoria del tutto ma non ci sono sedie a rotelle; il protagonista è un fisico visionario ma non si tratta di Oppenheimer; un vecchio brontola in una casa di legno sulle Alpi svizzere ma non c’è Heidi. Il mistero presto svelato: si tratta dell’opera seconda di Timm Kröger (ancora una volta a Venezia), un caotico pastiche che cerca di conciliare suggestioni ed eredità eterogenee e si muove a metà fra sogno e veglia, o tra realtà e illusione, arrivando a postulare un intero multiverso tra le due dimensioni.
Dello scienziato iraniano che sembrava pronto a presentare una ricerca in grado di rivoluzionare i fondamenti della meccanica quantistica, in quel piccolo albergo sulle Alpi designato all’uopo non c’è più traccia. Saltato l’intervento principale del convegno, al professor Strathen e al suo dottorando Johannes (Jan Bülow) non resta che dedicarsi a un po’ di sana attività sportiva sulla neve. Presto questa settimana bianca di fortuna verrà però turbata da alcune morti sospette, da una serie di eventi inspiegabili e dalla conturbante presenza di Karin (Olivia Ross), una pianista jazz che sembra avere un rapporto ancor più strano con Johannes. La causa di tutto alberga nella montagna circondata dalla nebbia che incombe sull’orizzonte.
Ruminazione instancabile di poetiche ed influenze classiche condensate in un thriller dalle sfaccettature fantascientifiche, Die Theorie von Allem prende a pieni mani da Hitchcock, Welles, Tarkovskij e Lynch, estrapolando rimandi visuali per congegnare un dispositivo filmico che proietta un’immagine cangiante come un ricordo sulla capacità decostruttiva dello spettatore. Lo confonde o lo tramortisce con la sua stratificazione, che si presenta in superficie come un omaggio a Spellbound e più in profondità raccoglie tutte le eredità inerenti al territorio della semantica dei mondi possibili. Il risultato complessivo è la resurrezione di un prototipo immaginativo che affonda le sue radici nel cinema degli anni ’40 e ’50, riportato in vita con la cura propria di uno scavo archeologico e installato su binomi e antinomie. A Kröger l’esistenza di un mondo parallelo interessa il giusto, al di fuori dei pretesti narrativi; l’elemento centrale è naturalmente il doppio o lo sdoppiamento, l’alternativa o la potenzialità inespressa.
Senza che sia dato modo di sapere se questo e quell’altro avvenimento nella diegesi avvengano in uno, due, o centomila universi, il regista tedesco forza la mano sulla radicalità dell’alternativa, l’aut aut più immediato, e in ultima analisi sull’angoscia che comporta la coartazione alla dicotomia atto/potenza. Infatti il perno centrale dell’impianto narrativo è la paranoia derivante dalla perdita, la Fernweh o la nostalgia scaturente dal rimpianto, nonostante la mole gargantuesca di letteratura che trabocca senza sosta (sia essa cinematografica o no, visto che, da Mann a Jünger e da Pavel a Dick, il discorso abbraccia una totalità tematica difficile anche soltanto da circoscrivere).
Die Theorie von Allem è un film sull’amore perduto, dopotutto. Quello tra Johannes e Karin, conosciutisi e innamoratisi in due universi paralleli sovrapposti per caso e impossibilitati a rivedersi poiché separati da un effetto farfalla chiasmico, è un amore tragico perché reso inattuabile dalla natura stessa delle leggi che regolano la comprensione umana delle cose. Come nell’inflazionatissimo (e giocoforza citato) esperimento mentale di Schrödinger e il suo povero gatto, Kröger – quasi logicamente, a questo punto – apre a un’idea di multiverso estetica e sloterdijkiana. Fintantoché l’occhio spettatoriale è fisso sullo medesimo b/n di Quarto potere, tutte le ipotesi – anche quelle contradditorie, forse soprattutto quelle contradditorie – sussistono con eguale dignità: Johannes allora è al contempo un brillantissimo fisico e un povero tontolone, il buffo professor Blumberg è sia vivo che morto, esiste e non esiste una cospirazione nel ventre della montagna, e infine è accettabile che l’indifferenza dell’universo dinanzi a ogni cosa, con le sue regole immutabili e autenticamente eque, si sposi perfettamente con il mito del Weltveränderer che secondo Kröger l’Europa non si è ancora lasciata alle spalle – in coda s’innesta una notazione sull’aspetto del nazismo, ad esempio.
Viene quasi difficile chiarire cos’è Die Theorie von Allem, tanta vasta è la sua politropia. E viene difficile non solo perché si tratta di un ircocervo che richiede di essere destrutturato a mani nude, ma perché l’ambizioso autore tedesco perde presto le redini del suo macchinario e finisce per aggrovigliarcisi, divenendo parte integrante del caos che ha scatenato anziché dominarlo, come un pescatore trascinato a sua volta in mare dal pesce. E se la prima ora di pellicola funziona come un orologio locale, la seconda eredita tutte le problematiche sospese, come la dilatazione temporale o la ricercata quanticità dell’intreccio o ancora, purtroppo, un finale che potrebbe essere stato scritto dagli sceneggiatori di Boris. Con quella grottesca Uberklärung conclusiva il film cessa di essere mostrato e viene anzi spiegato per mezzo di un petulante (e interminabile) voice-over che ne ammazza la coerenza interna. Non-lo-famo-ma-lo-dimo state of mind.
Die Theorie von Allem è un film riuscito per metà, con un potenziale mal sfruttato e spesso esigente o ruffiano, ma che fa intravedere un progetto di autore vero, specie se alla notevole perizia tecnica con cui viene ricostruita la grammatica del classicismo cinematografico si somma il lavoro di Kröger in qualità di direttore della fotografia agli ordini di Sandra Wollner (vedasi The impossibile picture o The trouble with being born). L’esecuzione è perfettibile, ma le idee permangono e soprattutto permane uno sguardo appassionato sul cinema e sul florilegio di possibilità che ne viene.