Incurante del rischio di causare confusione con l’omonima pellicola di Garrone di qualche anno fa, Luc Besson ha presentato in Concorso il suo Dogman, un racconto di miseria umana e vendetta – anche questa, tipicamente umana, come ci insegna il protagonista – costruito attorno a un carismatico underdog dalle sfumature messianiche, nel quale è pressoché impossibile non immedesimarsi. Ma nonostante l’empatia e la consueta potenza visiva a cui questo formidabile artefice di mondi ci ha abituato, il film smarrisce presto la strada di casa.

Nella spietata (e uggiosa) periferia americana, un uomo in abiti femminili viene fermato a bordo del suo furgone dai locali agenti di polizia. Grazie all’intervento di EvelynJojo T. Gibbs –, la psichiatra della centrale, si viene presto a sapere che il nome di quest’uomo, costretto in sedia a rotelle da un tragico incidente, è DougCaleb Landry Jones, già di passaggio al Lido con il ruolo in Tre manifesti a Ebbing Missouri (2017) per la regia di Martin McDonag, in Concorso a Venezia74 – e che le due dozzine di cani sul retro di quel furgone sono gli unici veri familiari che abbia mai avuto. Anteponendo l’istinto all’etica professionale, Evelyn lascerà che dogman le racconti la propria storia senza tralasciare alcun dettaglio, dagli abusi d’infanzia, passando per un amore di gioventù non corrisposto fino agli omicidi di cui, suo malgrado, si è dovuto rendere colpevole. Una storia che meriterebbe senza dubbio un lieto fine, non fosse per il gusto per la tragedia shakespeariana a cui Doug non intende rinunciare…

Contraddistinto da un immaginario che guarda più a Hollywood che non al Vecchio Continente, e che sovente preferisce attingere alla cultura popolare del fumetto e della graphic novel anziché limitarsi a un repertorio strettamente cinefilo, Besson è sicuramente l’autore – se non per certi versi l’unico – che più di tutti è riuscito a dar corpo all’idea di blockbuster europeo, dimostrando agli estimatori del cinema di genere d’Oltreoceano che la fantascienza – il cult Il quinto elemento (1997), l’opinabile Lucy (2014), senza poi dimenticare l’ingiustamente snobbato Valerian e la città dei mille pianeti (2017) –, il fantasy – il dittico composto da Arthur e il popolo dei Minimei (2006) con il seguito La vendetta di Maltazard (2009), adattamento dei romanzi dalla sua stessa penna –, l’action Nikita (1990), Anna (2019) –, il gangster – il secondo lungometraggio Subway (1985), a cui qualche anno più tardi sarebbe seguito il suo capolavoro Léon (1994) – non conoscono confini geografici, e che il loro orizzonte creativo può essere sì espanso a poderosi colpi di world building – come dimostrano i sopra citati Valerian e Arthur –, ma che a volte è sufficiente un personaggio principale con una storia abbastanza intrigante alle spalle per far sì che un intero film si regga sulle proprie gambe.

Per l’appunto, Dogman rientra in questa seconda categoria – ispirato in parte a un evento di cronaca realmente accaduto in Francia – e si appoggia all’immaginario suburbano di spiantati e irresistibili outcast di Subway e Lèon, riproponendo in particolare il ritratto di un’America senza speranza e senza scrupoli visto in quest’ultimo. Un ritratto che non è solo un omaggio al fumetto noir degli anni Novanta – fonte di ispirazione prediletta, nonché di alcune beghe legali per questioni di plagio –, ma anche divertissement in forma di epitome delle ossessioni della società americana, tra fanatismo religioso – unico fattore caratterizzante dei macchiettistici padre-padrone e fratello dello sfortunato Doug –, asserzione parossistica della propria identità a tutti i costi e contro tutti – come sembra stia a significare il microcosmo del locale drag presso il quale il protagonista per la prima volta sembra trovare una versione di sé che riesce ad accettare –, e assenteismo delle istituzioni con conseguente dilagare della criminalità.

Ciò detto, per quanto il personaggio principale e il fondale su cui questo si ritrova a recitare – suo malgrado, s’intende – la sua personale comédie humaine siano tratteggiati con dovizia di particolari, Dogman fatica a trovare una propria direzione narrativa, così come una coerenza di pensiero, data l’incerta collocazione etica di Doug tra una regola aurea “a rovescio” – che dunque lo autorizzerebbe a rifarsi della crudeltà subita su chiunque osi disturbarlo – e una proiezione cristologica di sé stesso, dove il peso dei peccati dell’umanità – di cui si gravano le sue gambe, paralizzate dal padre con un colpo di fucile e che costituiscono appunto un peso morto – si traduce nella salvezza per le uniche creature che davvero ne sono meritevoli – vale a dire, i suoi adorati cani.

A questo, si aggiunge poi un coacervo di estetica e temi che allarga il bersaglio polemico all’umanità tutta, dove la narrazione unipuntuale – che diventa anche rappresentazione in certi frangenti, con la macchina da presa posta regolarmente al di sotto del mento di Doug, a un’angolazione tale da segnalare la sua perenne sottomissione – contraddice la capacità d’azione e di movimento che il dogman si conquista, di fatto prova di una certa ascesa ed emancipazione dalla crudeltà altrui – morbosamente ribadita, invece, dalla pratica maieutica della psichiatra/anima affine, che tramite una costante apologia riporta il paziente nella posizione dell’adorabile perdente.

Certo, sottilizzando troppo si rischia di non rendere onore agli intenti e ai meriti di Dogman, che si inserisce coerentemente nella filmografia di un regista che ha sempre rifuggito i sofismi fini a se stessi, regalando al pubblico opere che, mettendo l’intrattenimento e lo stimolo visuale al primo posto, sono riuscite a far valere le ragioni di un’altra definizione di cinema, nondimeno raffinata e meritevole di analisi. Alla fine però è proprio questo che sembra mancare: nella sua tragicità, Doug appare un personaggio pallido e derivativo, incapace di imporsi saldamente nell’immaginario bessoniano, schiacciato dalla presenza, ben più espressiva, dei suoi compagni a quattro zampe.