Anni Cinquanta. Alice e Jack vivono nella comunità di Victory, una città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano al progetto top-secret omonimo e le loro famiglie. Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, le loro mogli trascorrono il loro tempo godendosi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Ma è davvero così?
Dopo l’ottimo esordio di Booksmart, Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un’utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Uno dei problemi del film è che questo “qualcosa” si intuisce quasi subito: fin dall’inizio, infatti, una sensazione di “sbagliato” pervade lo spettatore, che è quindi privato del brivido della scoperta che un’opera di questo genere dovrebbe offrire.
Wilde si muove tra thriller e horror con un grande talento per la costruzione delle immagini: molte soluzioni (ahinoi spesso già rivelate nel trailer) sono di fortissimo impatto e mai fini a se stesse, e servono da perfetto accompagnamento alla crescente angoscia di Alice man mano che si addentra nella tana del bianconiglio. La metafora anti-patriarcato è ben riuscita e non pesante, e la Wilde cuce il film con un buon ritmo, avvalendosi di una buona sceneggiatura e di ottime prove degli attori, Florence Pugh su tutti.
Pugh è il cuore pulsante del film, solare all’inizio, sempre più rabbiosa con il proseguire dei minuti: è la sua energia a spingere il film in avanti, facendoci sorvolare su alcuni buchi di trama e generando quella sospensione dell’incredulità che è fondamentale in pellicole come questa. Accanto a lei, Styles offre una buona prova, e la stessa Wilde è convincente nei panni della migliore amica di Alice.
Tuttavia, il film ripete tanti, troppi temi già visti (da Matrix a La fabbrica delle mogli, passando per classici del thriller psicologico come Shutter Island) e risulta quindi poco originale. L’intuibilità del colpo di scena deriva anche da qui – da una mancanza di quello scarto creativo che poteva riuscire a stupire il pubblico più esperto, che invece intuisce quasi tutto fin da subito. Ottima la prova di Florence Pugh, cuore pulsante del film.
Don’t worry darling è un’opera seconda ambiziosa, non del tutto riuscita ma comunque coraggiosa nel suo voler esplorare territori completamente diversi rispetto a Booksmart, ma al tempo stesso mantenere un’impronta tematica riconoscibile. Wilde dimostra di essere regista con visione e voglia di prendersi dei rischi: e questo, in un’industria sempre più appiattita sul già visto e su standard “sicuri”, è un merito non da poco.